Vincitore del Premio Strega Giovani 2015 con “Chi manda le onde”, Fabio Genovesi torna dopo due anni con un nuovo romanzo, “Il mare dove non si tocca” (Mondadori), in cui narra le peripezie di un piccolo grande Fabio alle prese con la sua bizzarra famiglia e tutto il mondo intorno. Un viaggio a ritroso nel tempo per apprezzare il valore di quella che comunemente chiamiamo: la diversità. Noi di Colori Vivaci Magazine lo abbiamo incontrato in occasione della tappa leccese del suo tour di presentazioni e gli abbiamo fatto qualche domanda.

Fabio, il narratore del libro è un bambino di sei anni: quello che colpisce leggendo questo romanzo è la credibilità del racconto in prima persona. Il piccolo Fabio sbaglia i verbi, non usa il congiuntivo. Da dove viene questa scelta? Che tipo di lavoro hai fatto per immedesimarti così bene nel linguaggio di un bambino?

È una scelta suicida perché mi espone a un sacco di segnalazioni, a professoresse che mi scrivono per dirmi che ho sbagliato tre congiuntivi, indicandomi la pagina e gridando allo scandalo. In realtà per far passare quei congiuntivi sbagliati mi si richiedono sforzi e tanta insistenza. A volte può succedere che la mia lotta venga presa per uno sbaglio, però io preferisco che qualcuno pensi che Genovesi sbaglia i congiuntivi, che non sappia parlare l’italiano piuttosto che il lettore si chieda: “Ma come parla questo bambino? Questo ragazzo? Come parla questa mamma arrabbiata col figlio?” Prova per esempio a immaginare una mamma che grida: “Se avessi saputo che avresti fatto questa cosa ti avrei punito!”. No!! Se tu scrivi devi amare così tanto i personaggi da dimenticarti della tua reputazione. Si tratta di una scelta: parlare come parlano i personaggi. Rimetterci in prima persona magari ma proteggere sempre e comunque l’autenticità della storia.

Cosa c’è nel mare dove non si tocca?

Non lo so ed è bello non saperlo perché il fascino del mare dove non si tocca è il suo luccichio in superficie, una luce che ti promette qualcosa di interessante. Che ti attira a sé e ti interessa anche se non hai la minima idea di cosa sia. Poi a volte trovi il coraggio, ti ci tuffi e non trovi comunque quello che pensavi. Il che è ancora meglio. Questo è l’augurio che faccio sempre a tutti e anche a me stesso: non trovare mai quello che cerco perché ciò che non riesco a immaginare sarà sicuramente più bello. Il mare dove non si tocca è la voglia di qualcosa che è lì davanti a te, che non conosci e che ti fa anche un po’ paura. Se vuoi trovarci un senso ti ci dovrai tuffare, in qualche modo.

Mi ha fatto molto ridere il capitolo intitolato: L’amore al tempo dei pirati. È un po’ Harmony ed un po’ poesia. Come si fa a scriverlo?

L’unica tecnica per scrivere un capitolo così movimentato e pieno di vita, un po’ commovente ma soprattutto comico sta nel renderlo semplice e difficile insieme. È semplice scriverlo se sei innamorato della sua storia, se ti piace talmente tanto che non vedi l‘ora di andare in giro a raccontarla. Quella forza, quell’entusiasmo, quella voglia, quella convinzione che sia proprio bella ti dà anche la capacità di scrivere nel modo giusto. È difficile scriverlo invece perché è difficile avere questa passione, ecco perchè io scrivo sempre e soltanto quando sento una temperatura alta che mi mette quella voglia lì. Per me scrivere è come un forno: devi attendere la temperatura giusta; solo allora potrai metterci dentro qualcosa.

So che tu sei nato come traduttore perciò conoscerai sicuramente il mito metropolitano del “Chi sa scrivere scrive, chi non sa scrivere traduce!”. Tu però hai vinto il Premio Strega Giovani 2015.

La traduzione serve tantissimo: quando qualcuno vuole imparare a scrivere, deve assolutamente tradurre. Prima ancora di farlo per lavoro, io traducevo fin dal liceo per divertimento, traducevo testi di canzoni, racconti, romanzi perché mi piaceva tradurre. Mi piaceva il gusto di passare da una cosa all’altra, da una lingua all’altra. Uscendo dalla tua lingua impari a muovertici dentro. È una vera e propria scuola di scrittura oltre che un esercizio di annullamento dell’ego. L’obiettivo di un bravo traduttore infatti è scomparire, lavorare talmente bene da non farsi notare. Chi traduce bene scompare. E questo è importante anche per la scrittura.

Nel tuo libro si parla tanto di stranezza, pazzia e normalità. Io sono figlia di due infermieri psichiatrici e mi sono sempre chiesta com’è che alcune persone finiscono per essere definite pazze. Chi decide cos’è normale?

Non lo so, non l’ho mai capito, molte delle persone che frequento abitualmente e a cui voglio molto bene hanno la fortuna di avere qualcuno intorno che li protegge altrimenti sarebbero clinicamente pazze. Credo forse di esserlo un po’ anch’io ma va bene così. Penso che sia l’unico modo per vivere bene; in fondo la vita è pazza di suo. Se tu sei così normale da non adeguarti alla vita, vivi male: sei sempre in ansia. Invece quando sei un po’ strano, vivi meglio la vita perché la vita è strana. I calcolatori finiscono sempre malissimo perché la vita non è fatta per i calcoli.

Fabio, io sono convinta che ogni mestiere abbia una caratteristica sua, innata. O ce l’hai oppure sarà impossibile farlo bene. Cos’ha nel sangue uno scrittore?

Credo che debba avere un grande amore per le storie e per le altre persone. Un grande amore perché le persone abbiano dei sentimenti forti. A me piace quando qualcuno legge un mio libro e dice: “Ho riso e ho pianto!”. Queste sono le due cose che mi interessano, non una soltanto ma tutte e due insieme. Credo che uno scrittore debba saper lavorare in quel punto lì, anche nella vita, debba saper vivere a quell’intensità. Queste sono le caratteristiche degli scrittori che piacciono a me. Altri, troppo calcolatori, troppo attenti a certe cose intorno finiscono per essere più chirurghi: è un lavoro molto utile quando lavori in ospedale, non quando scrivi un libro.

 Grazie Fabio.

Evviva noi col vizio di tradurre.

Cristina Carlà

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