Come fagioli a bagno
Tra agosto e dicembre. Senza soluzione di continuità. Un taglio di cellulosa da Nuovo Cinema Paradiso.
Scene di un ipotetico insieme che non sposa nessuna teoria, sipari chiusi sugli asterischi, dagherrotipi lunari incisi sulla sabbia.
Due rette parallele imbizzarrite diventano onde di un mare sconosciuto. Blu come le sere cadenti e i non ti scordar di me. Un agosto freddo. Un dicembre caldissimo. E c’era un prima e c’è un dopo, come in ogni romanzo. C’è un oltre, come in ogni poesia.
Nei tuoi occhi mogano la costante intermittenza puntatore/clessidra, come i primi windows e i quadri di Dalì e i bancomat e l’autunno e i parcheggi.
Il mare di notte in due monete che non so rubare.
Scivolo sul tuo corpo di velluto a mille chilometri. Fossi ancora qui a prendermi in giro e sognare l’estero e portarmi alla stazione e giocare con la gatta e prendere un’altra birra. Invece no. Anche se la tua voce bassa è nelle pareti e ho ancora la tosse.
È più grigia questa città così lontana dal mare. E non so chi sono. Non so chi sei. Ritorno bambina e disegno una casa bianca col tetto rosso spiovente, un grande albero a forma di broccolo, il sole intenso e un prato verdissimo: chissà perché nei sogni dei bambini è sempre estate. Ma una casa così non si è mai vista. Non può sempre splendere il sole e i prati non sono così verdi.
E tornano i treni, le autostrade, gli affitti, le scuole, il non sapere dove e quando andare. Non sapere dell’ennesimo concorso, non sapere se cercare l’ennesima stanza, nell’ennesima casa, dell’ennesima strada nell’ennesima città. C’è chi torna alle radici, ma io sono una ninfea e me le porto dietro. Non si sa mai. Di questi tempi pazzi instabili splendidi cattivi. Non si sa mai con queste lune e crisi internazionali e guerre e malattie e donne e cazzo di treni.
Mi sono appena ricomposta con la spillatrice. Perdo ancora qualche punto per strada, sotto al letto, tra i sedili della Panda. Resto per lo più intera, per fortuna, ma in certi momenti ho paura di stiracchiarmi. Ho paura degli spigoli e dei magneti. E se dovessi tornare a pezzi? Quante volte può succedere prima di non avere più l’energia per ricostruirmi? Ogni volta una grande fatica. Ogni volta una delusione immensa.
Come brillava l’ultima, prima di finire nell’indifferenziata.
Forse hai ragione tu: sono un racconto breve. Da leggere tutto d’un fiato. E poi riporre nella memoria. Forse non c’è più spazio per scrivere. Non posso che scivolare sui sentimenti come Cristo sull’acqua, ma senza santità e senza niente da insegnare. Apocrifa come le scarpe scomode dimenticate in soffitta. E i diari delle medie in cui non sappiamo riconoscerci. E i vecchi cartelli stradali che non portano da nessuna parte.
Forse sono una di quelle palle di vetro da agitare per noia, fastidiose da spolverare: il riflesso di un’esperienza. Un viaggio già concluso.
Cos’ho da dare in fondo?
Un pezzo d’estate e un San Silvestro. Mezzo volto e l’angolo di una stanza. Eppure c’è chi scriverebbe una trilogia sulla sigaretta lasciata a metà davanti al sushi.
Dopotutto continuo a lavorare sulle mie macchie d’inchiostro per renderle bianche e limpide. Con la gomma pane e le lime e il cancelletto. E voi lo fate? Potessi strapparlo via questo foglio, come altri mille. Essere un altro libro. Un altro pianeta.
Dopotutto anche tu te ne vai. E io non ho davvero la forza di trattenerti. Ma non lo vedi che ti ho teso la mano ? E forse sono un bel libro, ma difficile. Forse non è più colpa mia. Forse siete voi ad essere analfabeti. Forse la dovete smettere di leggere tutto in parafrasi.
Ne parleremo a cena, forse. O forse no.
Forse le parole sono sopravvalutate.
Delia Cardinale