C’è sempre un termine che mi viene in mente quando leggo un libro di Wallace, un aggettivo che mi sembra emergere direttamente dalla sua narrazione come una specie di disclaimer: “Respingente”.
La sua scrittura – materica, fitta, immersiva, ripida e quasi senza appigli – ha l’effetto di una persona attraente ma istintivamente odiosa, che resta tale finché non ne scorgi un frammento luminescente d’anima.
Attraversare le sue pagine è un’esperienza che elude ogni aspettativa, sfugge i compartimenti stagni emotivi nei quali cerchiamo istintivo rifugio, ti sbatte in una realtà aumentata in cui ogni dettaglio insignificante è talmente ossessivamente sezionato da sortire l’effetto che ha una parola ripetuta all’infinito, finché non è altro che un suono.
Quindi sei lì che leggi per dieci pagine le descrizioni di una merendina – dalla composizione chimica al packaging, alla scelta del nome – e ti chiedi se sia proprio necessario infliggerti questo interminabile supplizio.
Poi ricordi quelle volte in cui leggendo Infinite Jest, senza saltare neppure le trecento pagine di note perlopiù piene di descrizioni di farmaci inventati, ti sei sentito attraversato da episodi di epifania così violenta che non hanno più abbandonato la tua memoria umana e letteraria.
Nel racconto che apre Oblio, ‘Mister Squishy’, ci viene sviscerata la stratificatissima composizione dei Focus Group ufficiali ed occulti attivati attorno al ciclo produttivo di un’azienda – nella fattispecie il prodotto che muove i meccanismi di tutti questi livelli di indagine è la merendina ‘Misfatti’ – nonché la vita interiore ed esteriore di un impiegato chiave il cui nomignolo dà il titolo al racconto.
A sorvolare – letteralmente – questa chirurgica e particellare narrazione – c’è un inspiegabile (e inspiegato) individuo che si arrampica con delle ventose lungo tutto l’edificio.
Questa è la vicenda, ben poco attrattiva.
Ma a un certo punto il momento epifanico.
E cioè che in questo sgocciolio interminabile di dettagli di cui è composta la vita e il lavoro del protagonista, Wallace ti conduce esattamente dove vuole portarti, ovvero a osservare l’inutilità dell’esistenza di questa persona, votata a fantasie masturbatorie che coinvolgono una sua collega e costituiscono il suo unico orizzonte, fantasie che ambienta in case sempre più grandi man mano che la sua posizione in azienda cresce, ma nello schiacciamento di una solitudine sempre più espansa, sovrastante, come la figura che si arrampica su di lui sulle vetrate dell’edificio, e che esattamente come lui può travolgerti con milioni di schegge affilate.
Sottopelle, mi arriva una specie di urlo che dice: “Sta per succedere qualcosa alla tua vita, salvati, finché sei in tempo.”
Ecco, se dovessi trovare un filo conduttore degli otto racconti di questa raccolta, sarebbe la narrazione lucida e dettagliata di tutto quello che – in una mente umana – precede il punto di rottura, quell’istante in cui una specie di interruttore si spegne e un corto circuito disintegra tutti gli schemi.
Cosa che deflagra nel secondo racconto, ‘L’anima non è una fucina’, nel quale un insegnante inizia inconsapevolmente a veicolare messaggi omicidi durante una spiegazione alla lavagna, mentre un alunno è distratto dal suo meraviglioso mondo creativo, che gli fa comporre storie a partire da minuscoli dettagli intravisti dalla finestra.
La parabola emotiva sembra impennarsi nel racconto successivo, ‘Incarnazioni di bambini bruciati’, nel quale leggiamo dei tentativi estremi di un padre di soccorrere il figlio ustionato, con svelamento finale che è indubbiamente il momento di rottura definitivo di ogni possibile equilibrio.
E’ il racconto – più di ogni altro in tutta la raccolta – nel quale l’annientamento assume connotati così definitivi e disperati da non lasciare scampo; lo svelamento tragico di un dolore che è lacerazione, sbriciolamento di ogni speranza, puro sgomento e schiacciante sofferenza.
Leggendolo ho sentito una specie di voce dentro sussurrarmi: “ecco cosa succede quando non fai attenzione: muori male.”
Gli ammonimenti di Wallace, però, non hanno alcunché di didascalico, sono lucide osservazioni sulla gravità della vita – intendo su come agisce la forza di gravità nei nostri giorni – quando siamo su un asse inclinato e scivoliamo inesorabilmente verso il basso.
Wallace aveva – anzi ha; qualcuno ha forse detto che gli scrittori possono morire? – questa irrimediabile capacità di raccogliere i peggiori difetti umani e volgerli verso di noi ad uno ad uno, come un cartomante che ti legga i tarocchi e rigirandoli sul suo banchetto li attribuisca alla tua vita: imbecillità, bassezza, codardia, superficialità, credulità, bruttezza d’animo, avidità, stupidità.
Leggerlo vuol dire far i conti con la verità che ti abitano dentro, molto in fondo, raccogliere la sfida a vederle e decidere cosa farne, se lasciare che compongano il loro totale, silente mosaico di squallore o possano fare da sprone per un risveglio dell’animo intorpidito.
Nel quarto racconto: “Un altro pioniere” la storia viene narrata come in una specie di gioco del telefono, un sentito dire che conferisce alla vicenda coordinate spazio temporali vaghe e inattendibili.
La narrazione è quella di un bambino in un qualche remoto villaggio, deificato dalla sua tribù, che gli attribuisce poteri sovrannaturali e scatena attorno alla sua persona combattimenti e devastazioni finali.
La figura del bambino sembra deflagrare di normalità, la sua divinità sta tutta nell’essere totalmente distaccato da quel magma di assurda ignoranza che lo circonda, atteggiamento che non fa che esacerbare gli stupidi.
Ci sembra di ravvisare un confronto con le nostre vite quotidiane?
[Altra epifania]
Nel cuore della raccolta, nel quinto racconto intitolato “Caro vecchio neon”, Wallace continua a scavare nei recessi delle meschinità umane, con il ritratto sincero e spietato di un uomo che – dall’altrove della non esistenza – ci parla della sua vita di finzione culminata in un predestinato suicidio.
Finzione legata al fatto di voler sembrare la migliore persona possibile agli occhi di chiunque, fuorché di se stesso, votato com’è a una sorta di indifferenza verso la vita.
Quest’uomo confessa la sua unica vera inclinazione umana, quella del manipolatore, con cui riesce a farsi amare, desiderare, rispettare da chiunque; tenta di manipolare persino il suo analista, con il quale mette in moto una spirale di sincerità occultata, a sua volta, da un desiderio di primeggiare anche nello svelamento di sé.
Finanche il suo suicidio è un manifesto dell’apparire, una finale glorificazione di se stesso.
Nel finale l’uomo rivela di essere un vecchio compagno di scuola dello stesso Wallace, cerca di vedersi attraverso il suo sguardo; io non ho fatto che pensare per tutto il tempo che fosse una neppure troppo velata proiezione dell’autore.
(Foster Wallace  ha disseminato suicidi lungo tutta la sua opera; lo stesso protagonista assente di Infinite Jest, il regista geniale, ha infilato la testa in un microonde e se l’è lasciata cuocere. Non ci stava forse gridando a gran voce che il suicidio sarebbe stato il suo personale finale?)
Nel breve racconto che segue, “La filosofia e lo specchio della natura”, al centro della narrazione c’è una donna il cui viso, a causa di un errore durante un intervento di chirurgia estetica, è divenuto ‘una maschera indelebile di folle terrore’.
La voce narrante è quella di suo figlio, costretto ad accompagnarla dappertutto per proteggerla da incomprensioni e situazioni imbarazzanti, se non rischiose.

In queste poche pagine quella che emerge è un’anima grottesca che sembra offrire una risposta alla domanda: “Cosa accadrebbe se quello che abbiamo dentro emergesse in superficie?”.
Il lungo racconto che dà il titolo all’opera, ‘Oblio’ è invece la storia ossessiva e maniacale di due coniugi il cui equilibrio matrimoniale viene incrinato dalle accuse, mosse dalla moglie al marito, di russare in maniera così disturbante da toglierle letteralmente il sonno.
Attorno a questa accusa prende vita una storia che avvolge come una spirale i due personaggi, che in una vera e propria indagine affidata ad una clinica specializzata in disturbi del sonno, vengono scandagliati dalla penna sincera e feroce di Wallace, esaminati nell’itinerario che – nella parabola della loro coppia – li ha portati a cristallizzarsi dentro spettri di vite che non hanno la minima somiglianza con le loro identità di partenza, o dinamiche iniziali, trasformandoli in nemici giurati.
La raccolta si chiude infine con un racconto, o un romanzo breve, ‘Il canale del dolore’ che ruota attorno a due elementi narrativi: uno è quello di un artista decisamente divisivo che pare creare sculture nell’atto stesso di defecare.
Sua moglie, una donna estremamente repressa e infelice, sogna di costruire un successo familiare attorno a questo singolare talento.
L’altro elemento chiave del racconto è quello della creazione di un network televisivo – il canale del dolore, appunto – i cui contenuti sono esclusivamente costituiti da video di vicende drammatiche, luttuose, feroci e dolorose, della storia e delle vicende private.
In una sorta di climax ascendente Wallace riserva dunque alla coda del libro il punto di arrivo, parossistico e disturbato – ma così tristemente adiacente ai nostri tempi- dello squallore umano portato al suo massimo livello.
L’ostentazione di quanto di più intimo possa esserci, come il dolore, o come le feci, al servizio di un pubblico che sembra non essere mai sazio di interiora d’anime, di frattaglie vitali.
Leggere Wallace è spesso un’esperienza fisicamente insostenibile, perché questi affondi nelle viscere agiscono sul corpo a molti livelli, con fiato corto e bruciore di stomaco e uno sgomento che si impossessa della pelle, però è sempre, sempre, un risveglio della coscienza intorpidita che contempla un baratro e può scegliere alla fine di non saltare.

© Recensione di Sabino De Bari

© Fotografia di Sabino De Bari

 

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