Il mezzogiorno greco degli spettri, sull’alito sonoro di cicale ritornanti: un canto corale solo nell’aria immota, increspata d’afa leonina, deformi orizzonti e panorami danzanti. Ardessero migliaia di roghi nella muta estate meridiana. La salsola viva a vapore, lungo le crepe d’asfalto bianco a singhiozzi di malerba. Una pigna dal sempreverde rovina sull’ocra dell’incolto: unica presenza solerte, tra finestre serrate, intonaco cadente, lattee cavolaie e scheletri decidui. La vipera sgomita da qualche anfratto, non vista e lo sbadiglio rovente s’addensa alle tempie, spinosa corona di Barabba. Fichi spaccati nel vimini e sedie assolate, peperoni aggrinziti sugli usci vuoti: mai morte così bella come nell’ora dei magiari.

Riposa finanche il contadino avvezzo alla canicola, il cane randagio e la figlia del vento: tutto tace col sole allo zenit, tranne la pia orchestra delle vestali sui tronchi, morenti d’inedia e devote. Il  calcedonio del cielo spiovente su dorsi d’argilla crepata, solcato dal carro focoso d’Apollo, con l’astro che nutre e uccide di strali e carezze quest’antica terra di conquiste. I fossi brigantini, d’ossa e leggende, d’oro e mistero, mostrano i fianchi stanchi alla dittatura solare: mai morte così bella come nell’ora dei magiari.

Correndo un calabrone nell’arsura, breve scia ronzante sul capo, estinta nell’istante. E torna il velo inerte, dilatando il cono d’ombra delle cose, sempre più buio nel bel mezzo del fulgore. Demoni e capri nelle nicchie di tenebra che smagliano la credenza dei luoghi remoti. Criniere intrecciate e amorfe presenze, natura dal sussurro ferino negli orecchi dell’uomo. Nessuno esce a quest’ora, per l’agguato della pazzia, superstizioni e rapimenti.  Mai morte così bella come nell’ora dei magiari.

Delia Cardinale

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