Vederti sulla porta con la valigia che ti ho regalato, ennesimo frutto della colpa per averti offesa picchiata derisa umiliata. Siamo sempre state sole, io e te. Sul teatro pubblico e privato un stella binaria tra le pieghe del sipario.

Tu hai sempre vent’anni, il viso pulito e non sai parlare.

Il tuo silenzio senza giudizio la costante dei miei giorni, il motore di ogni collera. Camminavo per le strade con lo sdegno dell’immondo intorno, il cruccio dipinto e un rosso violento sulle labbra. Tu dietro di me, vestita da cameriera, muta e servile come un animale da circo. Raccogliendo i frammenti di tutti i piatti rotti sul pavimento, a guardarmi cucire l’effimero della mia arte sugli spaventapasseri, distruggere sacri vincoli, abusare del potere statistico-sociale su cui costruisco gli idoli del cinismo, strapparmi i capelli collezionando guepiere di filo spinato. Sempre lì, senza dire una parola, a subirmi e preparare la cena con le braccia graffiate.

Dormendomi dentro, Marlene. E hai sempre cent’anni, il viso pulito e non sai parlare.

Spazzando le vie di Gamla Stan con snervante devozione, sotto questa crudele tirannia una colomba bianca senza voce. Ho desiderato a lungo mi prendessi per la gola e rimproverassi il disgusto, sprechi e sedizione. Ti ribellassi all’estro sussultorio di quest’anima sporca. Ma ti è sempre bastato uno sguardo, più profondo dell’ombra, per le mani giunte. Amavi forse, in qualche strano modo, il mio cuore irredento, gli eccessi del sentire amorale, cortocircuiti e meandri cerebrali. Accettando supina l’impossibile di un’autonoma prevenzione.

Eri il morso alla pazzia, tutte le sentinelle della ragione che ho convocato per non morire.

O forse qualcosa di anteriore alla ragione, un sentire pre-cosciente che m’appartiene, la ferrea sopportazione, una sacerdotessa scongiurante che mi riportava all’essenza, a ciò che è vero e tendo a dimenticare. Eppure ti nutrivi, non so come, di passione e cattività, compressione e bombe a mano. Del mio trono sulla schiena, esistessi in funzione del mio agio inconsapevole. E più ti esiliavo e ferivo, più mi eri vicina.

La mia muta Marlene. Che lava i piatti e mi costringe a perdonare e chiedere perdono, congiungendo l’essere al dover essere e sa farmi vergognare con gli occhi, coprire il volto con le mani, sorridere dei bruchi, leggere novelle, sporcarmi d’inchiostro e farina, amare l’arte-natura, poi l’odore di cannella e il sapore delle more.

Una cosa sola, io e te. Nella scissione del discrimine: questo delta che c’innamora e maledice e rende di un altro mondo. Una chiesa e il suo rovescio sul fiume, qui e altrove da che ti ho creata o tu hai creato me. Opposte e speculari, l’ossimoro inspiegato, da che ho memoria. Forma e sostanza, anche se non so dove finisci tu e comincio io, chi è il significante e chi il significato e soprattutto se tutto questo esiste.

Marlene, assuefatta ai calci nello stomaco e alle catene, al capriccio e all’incostanza. E mi hai vista innamorata in ogni bordello, perdermi nel crack lungo i roveti, illudermi e disilludermi, correre a perdifiato nel cognac e dimenticarti per riprenderti, sollazzo o agonia. E io parlo troppo, tu non parli mai. Per questo inascoltate, per questo impossibili nell’allegoria vivente del nostro palcoscenico.

Le parole, Marlene, come puoi farne a meno? Che strana concrezione sei?

Il voyeurismo per l’amplesso tra sentire, grammatica e suono che si fa poesia e sfuma obliquo l’inesprimibile. Unico strumento nel fodero dell’azione, per me che sono di carta, un origami inutile e contorto. Tu rifiuti il linguaggio,anche il più banale e quotidiano, non hai mai letto un libro, ti svaghi non so come, godi non so di che. Avrei tanto voluto sentirti cantare, esprimere un concetto, chiedermi i soldi per il pane. T’ho vista accarezzare un gatto, disporre fiori azzurri, schiudere gli occhi nel sole, sfregare pentole e superfici, guardare nel vuoto con meraviglia, spargere ovunque mazzetti di lavanda, incollare le suole delle scarpe e costruire una casetta di fiammiferi.

Ti ho detestata, Marlene, per il modo di scivolare sulle cose del mondo e la profonda accettazione, per la calma barbara, quei maledetti non ti scordar di me e il tacito assenso-dissenso che ti ho proiettato addosso, specchiandomi in te per guardarmi meglio. Perchè siamo della stessa sostanza ad opposte  evoluzioni.

Mia schiava, amante e nemica. Marlene irrisa, esiliata e tradita. Marlene che non si aspetta mai niente e china il capo. Marlene oblativa, d’acciaio e piume e presente assenza.

Alla prima carezza che ti ho deciso, dopo milioni di scherzi e frustate, ti vedo sulla porta con la mia valigia, un proposito ignoto, delusa dalla tenerezza o sfibrata da questa continua guerra civile. E sei dentro o fuori: ho smesso di chiedermelo. Cosa sarò senza il tuo silenzio? Dov’è che stai migrando? è finito il tuo magistero, per cui non ho più bisogno di te o anche tu ti sei arresa?

Torna a trovarmi, Marlene.

Delia Cardinale

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