Ero seduta su una panchina, in provincia di Cremona.

Tanto verde e tante biciclette. Un piccolo fiume ripopolato ogni tre mesi. C’erano i gelsi selvatici e degli alberi di frutti che sembravano susine che sembravano ciliegie. Una volta ho visto due bisce che si accoppiavano.

Ero molto sola.

Poi sono andata in gattile e a giocare a calcetto con i ragazzi di un’associazione per diversamente abili. Non ricordo il nome, ricordo che mi facevo prendere la palla, perché certi sorrisi, certi goal davano un senso a quelle sere di nebbia e silenzio.

Andavo al serale a insegnare Manzoni. A imparare tutto. C’erano le lepri nel cortile della scuola. Ho conosciuto le nutrie. Al sud non ci sono. Davo da mangiare crocchette per gatti ad un riccio nel giardino di una grande casa senza lavatrice. Non avevo mai visto così tanti fagiani.

E su quella panchina, così lontana da tutto quello che conoscevo, qualcuno mi ha detto qualcosa.

“Ovunque andiamo, per quanto tempo restiamo, ci lasciamo dietro dei piccoli semi. Alcuni germoglieranno, altri no. La maggior parte no. Non importa se poi andiamo via. I semi che devono germogliare lo fanno comunque. Non hanno più bisogno di noi. Forse qualcuno, in questa metafora, si ricorderà di noi. Cercherà il nostro nome nella memoria. O lo pronuncerà ogni giorno. È inspiegabile, ma accade. Accade che non bisogna sforzarsi per essere ricordati. Per essere amati. Accade di restare dentro qualcuno. In qualche modo. “

Non sono più su quella panchina. Non sono più così sola. Anche se ho perso qualcosa oggi. Qualcosa in cui credevo. Ho disegnato una tartaruga. Nei minimi dettaglia. Poi l’ho colorata d’azzurro. Non so quante squame ho ricalcato, non so quante ore sono passate.

Non so perché sei andata via. Di nuovo. Credevo di averti ritrovata. Invece non era vero niente e il seme del nostro incontro forse era già morto.

Ho visto una quercia dove c’era l’avena fatua.

Ma questa non è la Mancia e non siamo nel Seicento. Dulcinea è solo una puttana senza denti. Non sei mai stata una principessa da salvare e io non sono mai morta combattendo i saraceni.

Questo non è un romanzo d’avventura.

Questo è un sonetto comico-realista: un grandissimo labor limae per dire due cazzate.

Due cazzate che fanno un po’ piangere e un po’ ridere. Di quell’amarezza beffarda da ventunesimo secolo che non ha niente di magico. Senza deus ex machina, senza guerre epiche, senza profondità.

E allora torno su quella panchina della provincia di Cremona. Per ricordare quella persona. Per ricordarmi dei semi. Per ricordarmi di te, che non capiresti questa poesia.

Di te che mi hai portata in crociera su una barca di carta.

Di te che mi hai fatto credere che avremmo solcato l’oceano, invece non siamo mai uscite dalla pozzanghera sotto casa tua.

Delia Cardinale

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