L’agitazione aveva sempre posseduto quel bar in aeroporto, nei suoi dodici anni di servizio. Sempre, fino ad allora. Poi il mondo aveva visto piano piano atterrare aerei che non decollavano più.
A Maggio non volava quasi più nessuno.
Alle dodici, all’inizio del suo turno, Valerio preparò solo tre caffè, poi passò l’ora successiva a lucidare le tazzine e i piattini, a pulire le vetrine e spazzare il pavimento già perfettamente intonso.
La playlist, in sala, aveva già fatto girare la selezione una prima volta. Il telefono chiuso nell’armadietto, tutto quella che aveva erano quelle canzoni.
Ma al secondo ascolto già le odiava tutte, dalla prima all’ultima.
Alle 14 servì un panino a un addetto delle pulizie di cui non ricordava il nome, ma cercò di trattenerlo il più possibile, di colpo la vita della famiglia di quell’uomo gli sembrava follemente interessante. Alle 16 i morsi della fame erano denti di noia che inondavano di succhi gastrici la sua pancia.
Alle diciannove il tramonto lo invase di arancio.
Alle venti prese una penna e un tovagliolino ruvido, scrisse.
“Sento un fitto silenzio dove c’era sempre brusio. Se la stanchezza mi possedesse ancora, se la frenesia si prendesse di nuovo i miei polpacci, potrei luccicare di pianto su questi pori di pelle che sembrano un volto ma sono solo una faccia.”
 
Uno scritto di Sabino de Bari
per CommunicAction 

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