“Ho bisogno dei miei spazi!” grida, gettandosi lo zaino sulla spalla.
Sbatterebbe la porta della camera, se ne avessimo una.
“Voglio un LOFT” aveva detto.
“Ho bisogno dei miei spazi”.
La puzza di fumo non se ne era mai andata, si era incollata al divano come il culo di tutte quelle anime affini che venivano a casa nostra due sere a settimana, a parlare di libertà e a scolarsi le nostre bottiglie. Lui avrebbe detto che ho un problema col possesso. Che nulla ci appartiene davvero. Sicuramente non le persone.
“Vattene, allora”.
Era la prima volta in sette anni che gli rispondevo così. Di solito lui faceva la sua scena, io rantolavo implorandolo di non lasciarmi sola e lui usciva, per tornare dopo un’ora, la prima volta, dopo due giorni, il mese scorso. Mai più, questa volta.
“Allora vattene”.
Silenzio, la porta che sbatte. Non posso sopravvivere da sola. Ma già non mi credo mentre me lo dico. La casa è enorme, vuota.
I battiti del mio cuore rimbombano sul parquet  e mi ricordano che sono ancora viva.
Non amo che le ante a specchio riflettano solo quattro arti e che per riempire la lavastoviglie servano quattro pasti. “Non mi piace la solitudine” rispondevo agli altri. Non voglio essere inghiottita dal mostro. Sono riuscita a rispondermi, quando il silenzio intorno mi ha finalmente fatto sentire la domanda.
Era la paura, non la solitudine.
La verità è che sono sempre stata sola, ospite invisibile delle vite piene di tutta questa gente piena di vita.
In questa casa senza porte dove ho finalmente aperto le mie, ho imparato ad apparecchiare anche per il mostro e ad abbracciarlo allo specchio.
Sto davvero imparando a farmi compagnia.  

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