Mi piace lodare, sono felice quando ammiro, non chiedo niente di meglio: essere felice di ammirare. (Diderot, Salon 1759, 1975-1983: vol. I, 63)

Persone raffinate sono quelle che a ogni idea o a ogni gusto sanno collegare molte idee o molti gusti accessori. Le persone grossolane provano un’unica sensazione; la loro anima non sa né comporre né scomporre; non collegano nulla a quanto offre la natura: nelle questioni d’amore, le persone raffinate si creano invece la maggior parte dei piaceri. Polisseno e Apicio servivano a tavola tante sensazioni sconosciute ai volgari banchettanti; e quanti giudicano con gusto le opere dell’ingegno provano e si procurano un’infinità di sensazioni che gli altri uomini ignorano. (Montesquieu)

Sui piaceri della sorpresa

Questa disposizione dell’anima, che la spinge verso oggetti sempre diversi, le permette di gustare tutti i piaceri provenienti dalla sorpresa, sentimento che piace all’anima per via dello spettacolo e della rapidità dell’azione; essa, infatti, coglie o sente qualcosa che non si aspetta o in un modo che non si aspettava. Una cosa può sorprenderci perché è meravigliosa, ma anche perché è nuova, oppure inattesa; in quest’ultimo caso, il sentimento principale si unisce a un sentimento accessorio, connesso al fatto che la cosa è nuova o inattesa. È per questo motivo che i giochi del caso ci attraggono; ci mostrano una serie continua di eventi inaspettati; è per questo che ci dilettano i giochi di società: anche questi risultano costituiti da una serie di eventi imprevisti, prodotti dall’abilità unita al caso. Ed è sempre per questo motivo che ci dilettano le opere teatrali: queste si sviluppano gradualmente, nascondono i fatti fino al momento in cui accadono, ci preparano sempre nuovi motivi di sorpresa e spesso ci provocano mostrandoceli quali avremmo dovuto prevederli. Infine le opere ingegnose solitamente vengono lette soltanto perché ci offrono gradevoli sorprese e rimediano all’insulsaggine delle conversazioni, quasi sempre fiacche e incapaci di produrre simili effetti. La sorpresa può essere suscitata dalla cosa o dal modo di coglierla: vediamo, infatti, una cosa più grande o più piccola di quanto effettivamente non sia, o diversa da come è; oppure vediamo la stessa cosa, ma congiungendola a un’idea accessoria che ci sorprende. Sorprendente è, in una cosa, l’idea accessoria della difficoltà superata per farla, o della persona che l’ha fatta, o del momento o del modo in cui è stata fatta, o di qualche altra circostanza connessa. Svetonio ci descrive i delitti di Nerone con un distacco che ci sorprende, facendoci quasi credere ch’egli non provi orrore per ciò che sta descrivendo. All’improvviso, cambia tono, e dice: «L’universo, dopo aver tollerato questo mostro per quattordici anni, lo abbandonò», tale monstrum per quatuordecim  annos perpessus terrarum orbis, tandem destituit. Ciò suscita nello spirito tipi diversi di sorpresa; rimaniamo sorpresi dal cambiamento di stile dell’autore, dalla scoperta del suo diverso modo di pensare, dal suo modo di rendere in così poche parole uno dei grandi rivolgimenti della storia: l’anima prova così un grandissimo numero di sentimenti diversi che contribuiscono a scuoterla e a predisporle un piacere.

Progressione della sorpresa

Le grandi bellezze nascono quando una cosa è fatta in modo che, sulle prime, la sorpresa che produce è modesta, ma perdura, aumenta e, alla fine, ci spinge all’ammirazione. A un primo sguardo, le opere di Raffaello fanno poca impressione: egli imita talmente bene la natura che all’inizio non si resta sorpresi più di quanto non si resterebbe vedendo l’oggetto stesso, il quale non susciterebbe alcuna sorpresa. Mentre un’espressione straordinaria, un colorito più intenso, una posa bizzarra in un pittore meno bravo fanno colpo su di noi al primo colpo d’occhio, perché non si è abituati a osservarle altrove. Raffaello potrebbe essere paragonato a Virgilio, e i pittori veneziani, con le loro pose ricercate, a Lucano: in un primo momento, Virgilio, più naturale, fa meno impressione, per fare maggiore impressione in seguito; Lucano, in un primo momento, impressiona maggiormente, per impressionare meno in seguito. La perfetta proporzione della famosa chiesa di San Pietro fa sì che essa non sembri, sulle prime, così grande com’è in realtà, poiché all’inizio non sappiamo a cosa rapportarci per valutarne la grandezza. Se fosse meno larga, verremmo colpiti dalla sua lunghezza; se fosse meno lunga, lo saremmo dalla sua larghezza. Ma procedendo nell’esame, l’occhio la vede ingrandirsi, e lo stupore aumenta. La si può paragonare ai Pirenei: l’occhio, che credeva in un primo momento di poterli misurare, scopre sempre altre montagne dietro alle montagne, e si perde sempre più. Capita spesso che la nostra anima tragga piacere provando un sentimento che non riesce a riconoscere e contemplando qualcosa di assolutamente di-  Omero, Iliade, XIV, 214-221. verso da ciò che essa si aspetta che sia: ciò suscita in lei un sentimento di sorpresa, cui essa non può sottrarsi. Eccone un esempio. La cupola di San Pietro è immensa. È noto che Michelangelo, osservando il Pantheon (che era il tempio più grande di Roma), disse che voleva farne uno simile, ma che voleva sospenderlo in aria. Su questo modello, progettò dunque la cupola di San Pietro; ma fece i pilastri talmente massicci che la cupola, benché sia come una montagna che ci sovrasta, sembra leggera a chi la osserva. L’anima, allora, esita tra ciò che vede e ciò che sa, e rimane sorpresa vedendo una massa così enorme e così leggera allo stesso tempo.

Sulle bellezze prodotte da un certo imbarazzo dell’anima

Spesso la sorpresa viene suscitata nell’anima perché questa non riesce a conciliare ciò che vede con ciò che ha visto. In Italia c’è un grande lago, che viene chiamato Lago Maggiore: è un piccolo mare, le cui rive sono interamente selvagge. In mezzo al lago, a quindici miglia dalla riva, ci sono due isole di un quarto di lega di circonferenza, dette «Borromee», che sono, a mio parere, il luogo più incantevole del mondo. L’anima è sorpresa da questo contrasto romanzesco, rievocando con diletto i prodigi dei romanzi, nei quali, dopo aver superato rocce e paesi aridi, ci si ritrova in luoghi fatati. Tutti i contrasti ci colpiscono, perché le cose contrastanti acquistano reciprocamente più rilievo: per questo, quando un uomo basso è posto accanto a uno alto, quello basso fa sembrare l’altro più alto, e quello alto fa sembrare l’altro più basso. Questo genere di sorprese suscitano quel tipo di piacere che troviamo in tutte le bellezze contrastanti, in tutte le antitesi e nelle figure analoghe. Quando Floro dice: «Cora e Alsio (chi lo crederebbe?) sono state per noi terribili; Satrico e Cornicolo erano delle province; ci vergogniamo dei Bovillani e dei Verulani, ma li abbiamo vinti; infine, Tivoli, nostro sobborgo, e Preneste, dove abbiano le nostre case di campagna, erano l’argomento dei voti che facevamo al Campidoglio»;  l’autore ci mostra, al contempo, la grandezza di Roma e la meschinità delle sue origini; e lo stupore riguarda entrambe. Si può notare, qui, quanto sia grande la differenza tra le antitesi d’idee e le antitesi d’espressione. L’antitesi d’espressione non è nascosta; quella d’idee, sì; l’una ha sempre lo stesso abito, l’altra lo cambia a piacere; l’una è varia, l’altra no. Lo stesso Floro, parlando dei Sanniti, dice che lo loro città vennero talmente devastate, che oggi risulta difficile trovare materia per ventiquattro trionfi: ut non facile appareat materia quatuor et vigenti triumphorum. E con le medesime parole con cui descrive la distruzione di quel popolo, egli ci mostra la grandezza del suo coraggio e della sua caparbietà. Quando cerchiamo di trattenerci dal ridere, il nostro riso raddoppia a causa del contrasto tra la situazione in cui ci troviamo e quella in cui dovremmo essere. Allo stesso modo, quando scorgiamo in un volto un grave difetto (un gran naso, per esempio), noi ridiamo in quanto notiamo che non dovrebbe esistere un tale contrasto rispetto agli altri tratti del volto. I contrasti sono pertanto causa dei difetti tanto quanto delle bellezze. Quando ci accorgiamo che sono immotivati, e mettono in evidenza o illuminano un altro difetto, essi diventano i principali fattori della bruttezza, la quale, colpendoci all’improvviso, può suscitare una certa ilarità nella nostra anima, e farci ridere. Se la nostra anima la giudica una sventura per la persona che la possiede, la bruttezza può suscitare la pietà; se la considera nella convinzione che essa possa nuocerci, e confrontandola con ciò che solitamente ci commuove e suscita il nostro desiderio, allora la giudica con un sentimento di avversione. Lo stesso avviene nei nostri pensieri, i quali, quando comportano un’opposizione contraria al buon senso, e quando questa opposizione è banale e facilmente da scoprire, non piacciono affatto e risultano un difetto, perché non creano nessuna sorpresa; essi, però, non piacciono neppure se sono troppo ricercati. Bisogna che in un’opera essi vengano colti perché ci sono, e non perché si è voluto esibirli; in questo caso, infatti, la sorpresa concerne unicamente la stupidità dell’autore. Lo stile ingenuo è uno di quelli che piacciono maggiormente; ma è anche quello di cui è più difficile impadronirsi: il motivo è che esso si situa esattamente tra il nobile e il volgare; ed è così prossimo a quest’ultimo, che è non è affatto facile sfiorarlo continuamente senza cadervi. I musicisti hanno constatato che la musica più facilmente cantabile è la più difficile da comporre: prova certa che i nostri piaceri e l’arte che ce li procura si situano entro limiti determinati. Dinanzi ai versi così enfatici di Corneille e quelli così naturali di Racine, non si direbbe che Corneille lavorasse con facilità e Racine con fatica. Il volgare è il sublime del popolo, il quale ama vedere qualcosa fatto per lui e alla sua portata. Le idee che si presentano alla mente delle persone istruite e dotate di grande intelligenza o sono ingenue, o nobili, o sublimi. Quando una cosa ci viene presentata in circostanze o con accessori che la enfatizzano, essa ci appare nobile: questo risulta evidente soprattutto nei paragoni, da cui lo spirito deve sempre trovare da guadagnare, e mai da perdere; essi, infatti, devono sempre aggiungere qualcosa, evidenziare la cosa più grande o, se non si tratta di grandezza, quella più sottile e raffinata; ma occorre fare molta attenzione a non rivelare all’anima nessuna associazione con ciò che è volgare, perché anche se l’anima la notasse, la nasconderebbe a se stessa. Siccome si tratta di mostrare cose delicate, l’anima preferisce paragonare un atteggiamento a un atteggiamento, un’azione a un’azione, una cosa a una cosa. Paragonare in generale un uomo coraggioso a un leone, una donna a un astro, un uomo agile a un cervo, è facile; ma quando La Fontaine comincia una della propria favole in questo modo: Tra le zampe di un leone Un topo sbucò dalla tana assai avventatamente: Il re degli animali, in quell’occasione, Dimostrò chi era, e gli risparmiò la vita, egli paragona le alterazioni dell’anima del re degli animali a quelle dell’anima di un vero re. Michelangelo è maestro nell’arte di conferire nobiltà a tutti i suoi soggetti. Nel suo celebre Bacco, non fa come i pittori fiamminghi che ci mostrano una figura vacillante e, per così dire, a mezz’aria. Ciò sarebbe indegno della maestà di un dio. Egli lo rappresenta saldo sulle gambe, ma gli conferisce così bene l’allegria dell’ebbrezza e il piacere di veder scorrere il vino che sta versando nella propria coppa che non esiste nulla di più ammirevole. Nella Passione, che si trova nella galleria di Firenze, Michelangelo ha ritratto la Vergine in piedi, che guarda il proprio figlio crocifisso, senza dolore, senza pietà, senza rimpianto, senza lacrime. Presume ch’ella sia consapevole di quel grande mistero, e quindi le fa sostenere con nobiltà lo spettacolo di quella morte. Non c’è opera di Michelangelo nella quale non si trovi qualche tratto di nobiltà: perfino negli abbozzi incompiuti vi si trova qualcosa di grandioso, come in quei versi che Virgilio non ha finito. Giulio Romano, nella sua camera dei Giganti a Mantova, nella quale ha raffigurato Giove nell’atto di fulminarli, mostra tutti gli dèi spaventati: ma Giunone sta accanto a Giove, e gli indica, con aria sicura, un gigante contro cui scagliare la folgore; in tal modo, Giulio Romano le conferisce un’aria di grandezza che gli altri dèi non hanno: più sono vicini a Giove, più sono tranquilli; e questo è del tutto naturale, poiché, durante una battaglia, il terrore scompare quando si sta vicino a colui che gode di una certa superiorità.

Montesquieu, Saggio sul gusto nelle cose della natura e dell’arte, a cura di Riccardo Campi

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