Avrebbe voluto scalfirne il mistero, minatore espertissimo nella gola riarsa di una miniera umana qualunque- grafite o diamanti tra le rocce fumose del suo corpo: il carbonio va estratto a tempo debito, lo sapeva fin da ragazzo. Lapis o gioiello lungo il decorso dei secoli, volgare e sublime dalla stesso metamorfico elemento. È sempre e solo questione di tempo e abilità da giocolieri. Ne aveva avute di donne, fin da ragazzo. Le aveva amate tutte quelle magnifiche passanti, ognuna in modo diverso. Ne ricordava ancora l’odore, la qualità del pizzo sotto le gonne, il sapore delle labbra. Sculture imperfette di carne sempre giovane, deludenti in fondo, come vizi smessi o specchi infranti. Ma lei, lei aveva qualcosa di diverso, una specie di magnetismo oltre-umano in quegli occhi glaciali e profondissimi che si ostinava a credere verdi. Li spalancava avvicinando il viso spigoloso e pallido al mento di lui, sostenendo con convinzione di avere gli occhi verdissimi. Ma lui aveva sempre pensato che avessero lo stesso ambiguo colore dell’oceano, torbidi dalla riva lontana ma di qualche divina trasparenza a sprofondarci dentro, come d’innocenza in lutto per una qualche perdita abissale. Molti uomini la evitavano, era solo una puttana-dicevano. Abitudini da viveur, vino rosso, donne bellissime intorno, capelli tagliati cortissimi e un aspetto androgino intriso di maledettismo. Non sapeva perchè ne subiva il fascino, forse proprio per quegli occhi d”acquamarina o le movenze leggermente mascoline ed estremamente cortesi, da dama ottocentesca in frac. La incontrava spesso, in Taverna. Portava sottobraccio, ogni volta, una qualche donna-bambola come uscita dalle pagine di Vogue, ci sapeva fare col sesso femminile almeno quanto lui. Si guardavano a lungo, da un capo all’altro del bancone, confrontando chirurgicamente le rispettive accompagnatrici. È pur sempre una donna, pensava, immaginandola vittima dei sentimenti e del pianto facile, come ogni altra. Non avrebbe mai avuto il suo cinico distacco da predatore, la sua cattiveria virile che tanto ammaliava il gentil sesso. Non poteva competere. Mentiva a se stesso ostentando ballerine-infermiere-dottoresse dai lineamenti hollywoodiani solo per il gusto di mostrare a lei la sua eccellenza venatoria, il potere sessuale derivante tanto dalla bellezza donatelliana quanto dal fascino d’avvocato affermatissimo-linguaggio forbito e sguardo penetrante. Le donne gli morivano dietro e lui lo sapeva. Lei era la Nemica, un’avvenente genio del male che catalizzava la sua attenzione da esteta. Aveva spesso immaginato il corpo dell’enigmatica sfinge in deluquio sul sofà di casa sua, avorio liquido dipinto sul rosso rapimento della tappezzeria. Desiderava egoisticamente l’impossibile amplesso con la donna in frac per dimostrare a se stesso che le era superiore-uomo, maschio, dominatore. Spesso le parlava gustando i suoi modi gentili, d’altri tempi, come sprofondando in una poesia decadente, palpitante di languida vita che si spegne. C’era un fondo oscuro sotto la cravata della donna, oltre quella maschera fitta d’apparenza e convenevoli..una qualche amarezza dissimulata. Lo sentiva vividamente nell’aria, come le bestie l’odore pungente del sangue. E si parlava della qualità del vino, del cibo, di ricordi…ma a volte lui non l’ascoltava, perdendosi nella sua voce roca, sulla linea dispettosa di quelle labbra sottili: le parole come simboli di una realtà sotterranea, lei stessa emblema di qualcosa che non riusciva a comprendere. Non avrebbe mai potuta afferrarla, falena notturna che si brucia sui neon senza goderne la luce. E mentre lei raccontava di una ragazza col vestito azzurro che aveva conosciuto in treno, lui l’accarezzava con la mente. Le dita del pensiero si insinuavano spesso sotto la camicia della donna, avide di scoprire la rotondità celata di quei seni nascosti con cura. Immaginava il sapore della sua fica, quasi lo sentiva sotto la lingua addolcita dal passito, assetata e secca. Avrebbe dovuto possederla, si diceva, sfinirla contro il muro sudicio del cesso. Vincere quell’ossessione che lo costringeva a sognarla, ogni notte. Non bastavano tutte le altre, nè masturbarsi accanitmente ad ogni ora del giorno. Lui doveva averla, strapparle i vestiti di dosso, divorarla. Così sarebbe stato libero, venendole dentro senza preoccuparsi delle conseguenze. Voleva sporcarla, ad ogni costo. Poi tornava alla realtà vergognandosi di se stesso. Una fica è sempre una fica. Lei era così avvilente, dopotutto. Non avrebbe mai voluto averla come compagna. Solo scoparsela impietosamente, per capriccio. O forse no, forse era semplicemente incuriosito dalla sua contorta umanità. Forse lei era una specie di doppio- così simili in fondo- e la penetrazione si trasformava in ossimorico narcisismo. Non riusciva a togliersela dalla testa solo perchè non esercitava su di lei il benchè minimo potere. Non riusciva ad accettarlo-psicologia di chi è così assuefatto alla vittoria da cercare spasmodicamente la polvere di una qualunque sconfitta. Tra le luci soffuse del pub quel volto d’alabastro si faceva, a tratti, angelico e demoniaco, fosse l’incarnazione del suo perverso desiderio frustrato dal buonsenso. Non ne poteva più. La disprezzava profondamente per essersi barricata su una torre altissima. E allo stesso tempo la rispettava, da pari a pari, come non era mai riuscito a fare con una donna. Dava la colpa a quell’alcolizzata di sua madre. Lei ordinò un cognac, non lo guardava più da un po’, distratta da un paio di gambe altezzose. Una donna alta e magra, aveva occupato lo sgabello vuoto che manteneva una sorta di distanza di sicurezza tra i due. La donna aveva un vestito azzurro a campana e una valigia di cuoio. Gli occhi di un verde fosco e splendente, denti bianchissimi e capelli tinti di rosso cupo. La Nemica cominciò a parlarle, con il solito savoir-fair da strega vestita da fata. La violenza del fastidio che lui si sorprese a provare lo costringeva a digrignare i denti. La sua donna in frac era perduta. Lui era perduto. Così, da eroico sedizioso, si intromise tra le due sfoggiando le sue arti amatorie con tutta la galanteria possibile. Quella sera, l’ultima sera, soffiò la preda alla Nemica che lo fulminava con gli occhi. C’era un patto tra i due- amici? O cosa?- ad ognuno il suo, sempre. Lui la tradì, non potendola avere. Seducente come non lo era mai stato portò via quelle gambe lunghe, il vestito azzurro. Era stato facile. Lo sguardo felino della donna in frac sprigionò gli ultimi dardi di rancore, quando lui uscendo dal locale sfiorò le natiche della preda sottratta. Poi la porta di legno del pub si richiuse dietro la coppia, sugellando una piccola morte inevitabile. Lui si sbattè con violenza la donna col vestito azzurro, sui sedili della sua auto. Ad ogni colpo lei si inarcava e gemeva, accogliendolo con foga. La Nemica non gli avrebbe più rivolto lo sguardo, lo sapeva. Lo voleva. Raggiunse l’orgasmo versando una lacrima, mentre lei, lontanissima, ordinava l’ultimo cognac. Detestandolo.

© Delia Cardinale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*
*