Sulla via del ritorno da quella giornata salata di mare e piccante di suggestioni artistiche e intime, erano stati colti di sorpresa da una polifonia di tonalità del rosso, rosato e arancio, sotto la guida del direttore d’orchestra palladifuoco che occhieggiava orgoglioso appena sopra la linea dell’orizzonte.
Rientravano da una città che fino a quindici anni fa nessuno conosceva – se non per una casuale omonimia con un celebre gioco da tavola – e invece ormai aveva imparato a indossare l’abito di Stendhal con un’impressionante disinvoltura. In quel momento rosso lui aveva detto, con una voce volutamente un po’ infantile: “ciao tramonto, grazie di tutto”. Poi si erano guardati negli occhi per una frazione di secondo e si erano riconosciuti, perché lui quel pensiero lo sentiva suo da quand’era bambino – “fare caso a quando siamo felici”, per dirla con Vasco Brondi, e premurarsi anche di ringraziare la natura o Quel Qualcuno che [l’ha creata e] si preoccupa di accordarla con la persona giusta e la canzone giusta al momento giusto – ma lei aveva immediatamente sentito che l’aveva espresso con un tono che le aveva in qualche modo rubato, se n’era lasciato permeare fino a farlo suo.
Le anime gemelle fanno così: si riconoscono continuamente.
E, anche dopo anni, continuano a meravigliarsi.

Testo e fotografia di Manlio Ranieri

meravìglia (tosc. o letter. maravìglia) s. f. [lat. mīrabĭlia, propr. «cose meravigliose» (pl. neutro dell’agg. mīrabĭlis «mirabile, meraviglioso»), con alterazione della quantità e del timbro della vocale della prima sillaba]. – 1. a. Sentimento vivo e improvviso di ammirazione, di sorpresa, che si prova nel vedere, udire, conoscere cosa che sia o appaia nuova, straordinaria, strana o comunque inaspettata
[Dizionario Treccani]

“These clouds we’re seeing
They’re explosions in the sky
[…] Soumates never die”
[Placebo]

 

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