Quel giorno di novembre le stelle erano scomparse.
Il cielo era buio e in rispettoso silenzio, io lo guardavo dalla nostra barca malconcia, che ancora dondolava per lo spavento.
Ci eravamo imbarcate un anno e mezzo prima, dopo una telefonata che avevi tentato di nascondermi.
Bisognava partire, partire per guarire.
Questo avevano detto: la tempesta stava arrivando e tu avevi bisogno della migliore allieva per superarla.
La nostra missione rese per la prima volta un viaggio tenebroso e non colorato di teli di spugna e profumo di crema solare.
Si andava incontro a onde alte come non le avevamo mai viste, non c’era tempo per i fronzoli.
Di tempo ce n’era poco e tutto da combattere.
Il mare accolse la sfida e si mosse al ritmo della nostra battaglia.
Così alzava e abbassava le sue onde come quei maledetti marcatori dopo i cicli della chemio.
Scompigliava i capelli che resistevano e ribaltava la nave e i ruoli: così tu, che eri sempre stata il mio capitano, ti ritrovavi per la prima volta senza forze a prua, ad ascoltare le mie indicazioni, i miei “ce la faremo”, i miei
“nel cinquanta percento dei casi le persone della tua età ce l’hanno fatta”.
Fino a quell’onda, quell’onda più grande di tutte, che ti ha spinta nel profondo e ha spento il cielo.
Oggi la barca dondola ancora, ma questa volta mi culla.
Ho alzato la testa e una luce l’ho trovata.
D’altronde lo dicevi sempre che non c’è miglior capitano di una madre.
E come ogni capitano hai trovato il modo di dare indicazioni al tuo marinaio, anche se sono rimasta sola, su una barca che dondola.

Testo di Alessandra Centrone prodotto durante il nostro incontro di scrittura Storie dal mare 

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