Come faccio e perché lo faccio, dove trovo le immagini, le parole giuste, i fatti. Vi ho risposto vagamente perché so che altrimenti comincereste a fare attenzione e nascondervi o costruire gesti e occasioni per far finta di. Io invece voglio la verità. La verità è che vi guardo, vi osservo mentre ordinate il caffè al bancone del bar o vi sistemate i capelli dietro l’orecchio con la mano destra. Studio e fotografo con gli occhi il ritmo con cui appoggiate i piedi a terra uno davanti all’altro mentre camminate per strada, il rumore che fa il portoncino di casa vostra quando si richiude dietro di me. Io sono ossessionata da voi: questa è la verità, sono ossessionata dal modo in cui respirate di notte, dalle smorfie che fate con la bocca quando vi vergognate e da quanti anelli portate alle dita. Quanti? I vostri denti, la maniera in cui sono accavallati e il colore della vostra pelle. I nei, le macchie di sole, i tatuaggi che scegliete di mostrare o nascondere sotto la camicia. Le storie. Le vostre storie.

La verità è che vi ascolto anche quando faccio finta di bere un thè in silenzio, vi ingoio insieme ai biscottini al burro per farvi fermentare meglio. Dentro. Dentro di me per giorni, mesi, a volte anni interi in cui mi fate compagnia come fantasmi che ogni tanto compaiono e mi strizzano l’occhio. Oppure mi stringono forte al collo fino a quando il buio della mia pancia non basta più e l’unica cosa che posso fare per liberarmene è offrirvi in sacrificio al bianco di una pagina, al nero di un inchiostro che mi avvelena e mi delizia sempre. E così allora mi salvo, finisce tutto in qualche pagina e quello che mi tormentava non ha più lo stesso senso ma dieci, cento, mille altri dolcissimi sensi.

Vi amo, vi amo talmente tanto che non vedo l’ora di ammazzarvi e poi tagliarvi a pezzetti. Ricomporvi a gusto mio coi capelli di uno, le spalle di un altro e la bocca di un altro ancora. Come l’amante perfetto che non ho mai avuto, un Frankenstein prezioso e morbido a mia disposizione che all’inizio del rigo si dimostra paziente e servile e poi pian piano prende la sua strada, quella che non avevo previsto e di cui non esiste ancora fine. Se la costruisce mattoncino mattoncino, imponendosi alle mie dita come fanno le donnine ammiccanti quando vogliono qualcosa e ti soffiano il fumo delle loro sigarette negli occhi. Per confonderti e proporsi con la loro evanescenza fatta di miele e cicuta. Ci metto un sacco di tempo, davvero, per modellare il mostro e renderlo accettabile, esteticamente voglio dire, con una carota al posto del naso, un cappellino e dei bottoni come occhi. Un gesto di rispetto, un trucco per non farvi troppo male e che ha una moralità sua: deformare il vero senza però tradirlo mai. Vi rileggo tutti a voce alta e non mi fermo fino a quando la lingua non mi balla in bocca. Quello è il segno che funzionate, finalmente.

La verità è che vi sniffo i capelli, i colletti delle camicie, quel punto magico che sta appena dietro il lobo dell’orecchio. È una questione di attimi, un battito di ciglia impercettibile che mi serve per mettere a fuoco e scattare. Clic: l’essenza intera di voi immagazzinata con cura tra i corridoi dei miei sensi. Mentre vi sfioro delicatamente per vedere di cosa son fatti i vostri cappotti, cosa nascondete sotto, sotto i colori che scegliete per parlare di voi al mondo. Le unghie dei piedi con lo smalto scorticato, le curve che disegnano le vostre trecce quando correte, i polpastrelli ingialliti dal tabacco. L’odore che vi lascia addosso, il tabacco. Io sto sempre dietro di voi perché stare davanti d’altronde mi farebbe troppa paura: rubo i vostri sospiri, le vostre grida di dolore e ne faccio sbadigli, storielle da strada per chi non ha nulla da perdere.

Io sono una ladra, per questo chi mi conosce bene mi evita. Sono una ladra e merito la galera. Perché mentre vi ascolto succhio il sangue dalle vostre parole e poi con quello mi faccio bella agli occhi del mondo. Vi piace leggermi, dite, e a volte mi ringraziate pure perché tra le mie righe ritrovate quello che avete perso, o dimenticato; ma credetemi, una volta tanto, io sono solo una ladra che è entrata a casa vostra e ha messo a soqquadro i cassetti della vostra anima. Io pecco, pecco ogni giorno e per questo vi chiedo perdono anche se quando lo faccio non mi crede nessuno. Quanto sei buffa! Quanto sei strana! Figlia di puttana!

La verità è che l’inchiostro mi fa sentire onnipotente, onnipresente sul palcoscenico di questo teatrino di cui voi siete i protagonisti inconsapevoli. E non mi interessa cosa pensate dell’attuale situazione politica internazionale, delle congiunzioni astrali o della filosofia junghiana. Piuttosto, nascondetevi dietro l’angolo perché io vi trovi all’improvviso di fronte, fatemi buuu! e poi indicatemi con l’indice la strada da cui siete venuti, i lampioni che vi hanno portato fino a me con le piante dei piedi sporche di chissà cosa. Non mi interessa nemmeno la vostra cultura, mi interessa vedere cosa lasciate nel fazzoletto quando tossite sangue. Solo il sangue conta per me e le grinze delle vostre mani.

Vi chiedo perdono, perdono davvero se a forza di fare così non so più niente di quello che sono stata, se mi confondo tra ciò che esiste veramente e ciò che invece desidero. Se mi lascio dondolare da quel senso di alienazione e straniamento che mi prende a volte e fa sì che quando usciamo insieme la sera voi mi parliate e io invece per una mezz’ora buona non riesca a ingranare e vi risponda male. Ecco, la mia paura più grande è che un giorno mi capiti di non tornare più da questa condizione sfasata e di rimanere per sempre così. Confusa. Perdonatemi, lo faccio solo per non morire, non voglio farvi dal male, davvero. Perdonatemi. Ma non è facile scrivere. E neanche vivere.

Cristina Carlà

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