All’improvviso mi ritrovavo in un piccolo assembramento di donne e uomini che si erano riuniti per conquistare il coraggio di mollare gli ormeggi.
Sembravamo piuttosto bizzarri, bisogna dirlo, come partoriti da una fantasia Carrolliana. Bevevamo vino rosso all’ora del té, ubriachi naviganti su tappeti volanti. Avevamo la cambusa traboccante di fantasia, parole in plancia e penne a mo’ di remi, sguardi come bussole e risate per scialuppe di salvataggio.
Il capitano – matto come un cappellaio! – ci invitava a fendere il verde giada, lasciando finalmente dietro di noi una spumeggiantissima scia di vorticosi pensieri, pomfi pruriginosi, coltelli nelle piaghe, vampirizzazioni, condanne agli innocenti, alimentazione vegana, bocche larghe e mani strette, code di lucertola, scheletri di cicala, ostriche senza perle e delle rose solo le spine.
Affacciata a tribordo mi lasciavo solleticare da coriandoli di libeccio, mentre una cupola grigia galleggiava al fianco della barca delle meraviglie.

“Elefaaaanteeeee a tribordoooo”, urlò la venditrice ambulante.
“Cribbio Mauro! Ancora tu? Ma non dovevamo vederci più?!”, pensai subito io, riconoscendo il boccaglio a proboscide della cupola grigia.
Mauro, il mio elefante indiano, oro ai Mondiali di nuoto nei 200 mt stile pachidermico, mi aveva seguito come il più appiccicoso degli appiccicosi. Montagna di zucchero filato che barrisce.

No che non volevo abbandonarlo. Non si agitino gli animalisti. Volevo solo che la smettesse di prendersi tutto il mio spazio, che mi lasciasse i recettori visivi liberi di percepire l’oltregrigio.
Decisi di parlargli ancora una volta, cercai parole nuove nel dizionario del moderno elefantese. Sembrò capirmi.
Decidemmo di convocare un architetto per definire meglio la suddivisione degli spazi. Avremmo mantenuto un luogo d’incontro, pur conservando ognuno il suo proprio posto nel mondo.

La barca delle meraviglie era salpata ormai. Andava verso l’infinito.

Roberta Zambetta

 

Foto di Gregory Colbert

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