Fare un lavoro che richiede di entrare nelle case degli altri è, per uno scrittore, un’occasione impareggiabile di raccogliere materiale umano di enorme valore.
Chissà se un giorno capirò perché la frase con cui vengo accolto nella maggior parte dei sopralluoghi è “mi scusi per il disordine”.
Non m’interessa, sapete?
Anche se, devo ammettere, il fatto che oggi in un intero condominio non ci sia stata una sola signora che me l’abbia detto mi ha un po’ destabilizzato: quasi quasi cominciavo ad abituarmi.
Quando vai su e giù per le scale di un palazzo scorgi un piccolo mircocosmo, uno spaccato di società che riesce ad essere rappresentativo di tanti aspetti.
C’è il ricco e il povero, l’artista e lo studente fuori sede, c’è il professore in pensione, la vecchietta e la famiglia giovane del Mulino bianco.
Qualche casa ti colpisce, qualcuna ti incide un piccolo segno nella coscienza, altre scivolano via senza lasciar tracce se non gli appunti sul tuo taccuino.
Oggi, nello stesso edificio, ho visto realtà estremamente diverse. Ho visto la signora anziana che vive da sola con la badante in una casa enorme – dodici stanze ariose ma ricoperte da una patina stantia, una sorta di muffa immaginaria che si confonde con la moquette verde del salone, con le tende pesanti del salotto che lasciano trapelare una luce fioca – e che passa tutta la mattinata a letto, nella penombra, semi-incosciente, incapace persino di salutarmi quando faccio irruzione nella sua camera, se non con un rantolo fioco e inquietante.
E ho visto la coppia quarantenne, con i corpi segnati da una vita non esente da privazioni, che vive in fitto in uno dei vani al pianterreno, un monolocale di poco più di venti metriquadri con bagno, stipato della camera da letto, il soggiorno e la cucina, tutto nello stesso stanzino, schiacciati come se fossero sotto vuoto. Un’abitazione ricavata in quello che doveva essere una specie di ripostiglio condominiale, dentro cui queste due persone mi hanno ricevuto con una dignità che mi ha lasciato stupefatto, ma anche con una luce un po’ smorta negli occhi.
E allora, sebbene essere comunisti in Europa nel ventunesimo secolo sia forse un tantino anacronistico, sebbene io provenga da una famiglia benestante che non mi ha mai fatto mancare niente, qualche dubbio sulla distribuzione della ricchezza nel mondo mi viene: anche solo osservando un condominio, una realtà ristretta e compressa.
Non c’è bisogno di arrivare in Africa, per comprendere che questa società ha qualcosa di sbagliato e che nel modello capitalistico ci sia un’ingiustizia implicita, inevitabile e devastante.
Lo dico cosciente dei miei stessi controsensi. Ma lo dico con una certezza salda, inequivocabile.
La mia anima di plastilina si fa il calco delle tristezze che vede – apparentemente passandoci accanto impassibile, professionale, salutando con educazione e uscendo dalla porta come se niente fosse – poi s’indurisce lasciandone il segno.
E gli rimane impressa l’anziana sola che non sa cosa farsene della sua piccola reggia e la coppia che non può permettersi di essere più di una coppia perché non c’è spazio per nessun altro.
Piccole ingiustizie borghesi.

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Nelle case degli altri di Manlio Ranieri è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
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