C’era un certo gusto a mordicchiare le matite, a parte il sapore delicato di pioppo bianco, sotto lo smalto. Quell’albero ti è sempre piaciuto perché ha dei piccoli rombi sulla corteccia. Era stupendo riconoscere la tua ad occhi chiusi, solo dai solchi. La usavi finchè non diventava così corta da sfuggirti. All’epoca disegnavi solo cavalli. il vero motivo per cui odiavi le gonne: e se non posso andare a cavallo? Perché li vedevi spesso. I cavalli. Come l’edera lungo le strade. E il mostro con la testa  di seppia. C’erano poi quei momenti nell’erba a primavera, quando mangiavi gli steli delle primule: sanno di limone. Tante di quelle sensazioni, piccole e indimenticate. Una strana propensione all’analogia, incollando gli oggetti più vari o indovinando il colore dei papaveri: c’era un trucchetto nel corrompere i boccioli. E i figli immaginari dell’avena fatua: con gli steli più grossi e una delicata fermezza, ti avevano insegnato a costruire le zampogne. Ma suonavano solo recitando una filastrocca antica e se non c’era troppa umidità. L’insalata di portulaca e mammole,  i lombrichi sotto le fontane di pietra, tutte le ossessioni coloristiche, quell’ingenua cattiveria dell’esperimento. Qualcosa di quel sensismo mistico- scientifico è rimasto sotto le unghia, impresso  a fuoco nel cristallino, tra le volute cardiache. E ne hai fatta di strada da quando correvi scalza per le campagne convinta che soffiare a lungo facesse arrabbiare il vento o che le costellazioni si animassero di notte. La pervicacia di questo sentire sinestetico ha stupito i sismografi. Un palloncino rosso ti fa ancora sorridere, come gli acquerelli , il suono di certe parole o l’ombra che si comprime sotto i lampioni. Si, ci sono stati gli ospiti inattesi : non hanno aspettato l’invito per bussare alla tua porta. Eppure intatto il procedere analogico s’è affinato in nuovi giochi prospettici, con tutta la sua inutilità contemplativa: non è importante per nessuno conoscere i nomi delle piante, innamorarti dei palloni aerostatici o di una poesia russa, scoprire che dal pioppo bianco fanno anche i libri e sentirti le sue radici nel petto. Per lo stupore e la frenesia dei collegamenti, come la parentela tra la grafite e il diamante, la mitologia sumera e il vecchio testamento, il carciofo e la margherita, i fotoni e la serotonina. Non è importante per nessuno e non serve, ma  sono cose che t’appagano e fanno ardere, da sempre. Anche se ti hanno mandata su Plutone, ad un certo punto, senza nozioni d’astrofisica.  Anzi forse con più ferocia, dopo che da Plutone sei tornata. Te lo ricordi il primo sole? Un’estasi.  E dopo l’inedia una fame zingara, creola, furiosa di tutto ciò che avevi dimenticato e di nuove frontiere inesplorate. Nel frattempo, mentre eri via, hanno inventato gli aerei e le belle persone, il non-inferno a cui dare spazio nel buio, la resilienza e la gioia delle piccole cose. O forse tutto questo c’era già e non riuscivi più a vederlo perché eri distratta. Serviva Plutone. Tornare a riconoscere i fiori, le immagini dei libri, l’avena fatua e i denti di leone. Staccare finalmente il quadro da una brutta cornice. Te lo ricordi il sapore di quel gelato? Quando ti hanno invitata al cinema? Tutta la bellezza che avevi smesso di godere? La stessa identica sensazione di quando hai scoperto l’esistenza dell’indaco. Te lo ricordi? Una specie di miracolo, l’indaco.  Oggi conosci tutta la scala di Raal, ma è ancora poco. Quante cose ancora non sai. Quanti dettagli e occhi e santuari, giardini, pesci , tessuti, averni, biblioteche. Non importa se un po’ di Plutone ce l’avrai sempre dentro e ti distrai, alle volte. È la stessa democrazia del vivere e  del morire, nell’imperfetto calcolo delle variabili. Alzati e cammina. Hai dimenticato di ricambiare un sorriso oggi. Di accarezzare il gatto e cucire un bottone.

Delia Cardinale

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