È che ci vuole una certa distanza-pensava. Perché poi per certi versi aveva ragione Nietzsche sull’abisso. Si sdoppiava nel tentativo di comprendere- “in principio era il caos”. E ride- dell’associazione fantastica. E quando si viveva di stenti? Quando il pane costava troppo e abbracciava il crudismo per riempire i vuoti? O il buddismo, le scatole vuote, i ricordi, gli aghi e il bricolage. Perché poi si soffoca, anche nelle valli aperte. Tanta di quella fatica. “Una pace, un senso di raccoglimento”. Ma l’inanità dietro gli angoli, con mille maschere d’oro. Restava un anti-eroe grasso nella fortezza della solitudine. Un arlecchino sorridente col cilicio. Le tare genetiche-pensava. E di chi è la colpa? Della fisica quantistica, del caso, di Dio onnipotente? No, solo sua. Ci voleva il calcio per le ossa e l’adamantio per l’armatura. Un certa fede in qualcosa. Era più facile, da bambino. Eppure, anche lì ambizione, pretese e coni d’ombra. Ma nessun mostro poteva piegarlo-correva lungo i fianchi delle colline come un guerriero. Poi “il giovane dio è diventato uomo” e l’ingiustizia delle piazze vuote. Non era la simpatia che voleva, ci voleva grettezza per questo, grigiore accademico. Lui era alla finestra, di notte, coi pennini. Lasciati i masnadieri nell’altra stanza. Deve allontanarsi, ad un certo punto e non vedere. Polveri sottili e onde elettromagnetiche- la psicosi- mi stanno avvelenando. Ma lasciava scadere il miele nei barattoli aperti e marcire le mele. Il proposito fermo che inorgoglisce fino a bruciare tutto e le ceneri spose. Tutte le perle e gli onici, nel backgammon di un’anima viscosa. Doveva imparare gli scacchi, non intuirli. Studiare i manuali non farci gli origami.

È che ci vuole una certa distanza-pensava.

Delia Cardinale

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