“All’amato me stesso”.

Una delle poche poesie che esprime l’inesprimibile: quella vuota pienezza di certi momenti, così aristocratica, così plebea.

La grandezza è sola, come le parole pesanti e il volo dei rapaci.

Si resta lì, nella partenogenesi oscura della propria collera, ad esaltarsi per ogni fiammifero. Come bambini alle prese di nuovo gioco. Poi lo zolfo finisce e ti brucia le dita.

Finirà la scatola senza che nessun rogo ne erediti il miracolo. Ci saranno altri fiammiferi, altre lucciole, altre lampadine a risparmio energetico o qualche fredda insegna al neon ad indicare i vuoti a rendere.

Le persone-ponte: i bicchieri di vetro che si rompono e dimenticherai. Scriverai lodi e palinodie, invettive e inni sacri. I grilli in testa, la testa tra le mani, le mani sugli occhi, gli occhi nel cesso.

E poi pernod, quattro pistacchi e odore di candeggina. Ti sfila dentro qualche apatico sacrilegio, ma torni comunque al solito lego, senza avere i pezzi giusti. E vai in Ruanda per una guerra giusta, con gli stivali delle sette leghe. Impari a fare molotov nello scantinato e ci aggiungi il polistirolo per sentirti più coreografico.  I discorsi al bar con la strategia del pavone, anche se preferisci l’usignolo: ma è così triste lui…e insignificante. La stessa distanza tra poliestere e cotone. Ci piace risparmiare ed essere coloratissimi, come coriandoli che saranno biodegradati.

Fatui, leggeri e gioiosi.

Ma alcuni s’incuneano nel buio, vampiresca bellezza da assorbire e rarità del bene o servizio. Tutti in fila a mostrare una merce mentale di poco valore, qualche santo barbone e poche madonne cattive. E per Majakovskij sono le 4, per me 48 minuti dopo. Come chi beve cicuta o soffre un’insonnia sincopata. Col calice del sangue e del vino a brindare per qualsiasi stronzata tossica. L’assoluto o il dissoluto. Il resto fasi intersismiche troppo prevedibili. E il poeta muore col suo amore che non trova contenitori a tenuta stagna o polarizzazioni degne. Piccolo come un oceano immenso. Sforzo notturno di rompere la quarta parete, come un vecchio e glorioso 9 novembre.

E poi il ripiegamento e la risata, già sapendo che il fossato è troppo fondo e i merli trapunti d’arcieri. Per Costantinopoli e Manhattan: un altro giro.

Delia Cardinale


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