Che fine ha fatto Vasco Brondi?

Si è venduto? Si è rammollito? E’ finito sommerso dalle centinaia di insulti che hanno invaso la sua pagina facebook – quasi in pari misura rispetto ai complimenti – quando ha pubblicato per la prima volta il video di Destini generali?

Forse, molto più semplicemente, è cresciuto. La cosa più logica e sensata da fare, nell’arco di quattro anni – tanto è il tempo che è passato da Per ora noi la chiameremo felicità.

Pariamoci chiaro: i primi due album delle Luci della centrale elettrica sono stati, forse, il prodotto più originale che sia stato concepito nell’ambito della musica italiana dai tempi dei CCCP. Avevano un solo difetto: erano troppo uguali fra loro, e per un prodotto così tanto originale persino copiare se stesso può diventare un po’ limitativo. Insomma, Vasco Brondi era atteso dalla sfida più difficile: dopo aver dimostrato al mondo quanto fosse bravo a inventare doveva riuscire a tirarsi fuori dal circolo vizioso delle autocitazioni. Re-inventarsi, in una sola parola.

A mio avviso ci è riuscito nel modo migliore che potesse.

Non tutti sono stati d’accordo, naturalmente, ma il mondo – si sa – è bello perché è vario, pieno di opinioni, di colori, di idee. Quello che trovo assolutamente fuori luogo è il solito fondamentalismo indie di alcuni dei commenti vomitati di getto dopo aver ascoltato un minuto scarso di un pezzo che – solo apparentemente – poteva sembrare un po’ più scanzonato della solita rabbia punk a cui eravamo stati abituati. Ma sarebbe bastato fermarsi ad ascoltare un attimo: “è solo un momento di crisi di passaggio che io e il mondo stiamo attraversando”. Queste parole, insieme al “poverissima patria, arriva arriva la deriva economica” dovevano già far capire quanto era acuto il contrasto fra il motivetto scanzonato e la grigia atmosfera del testo. Una canzone è fatta di musica e parole, e nel caso delle Luci della centrale elettrica questa affermazione è più vera che mai. Di conseguenza, prima di emettere sentenze, sarebbe bene soffermarsi bene sulle une e sulle altre, e persino sull’accostamento fra le due. Nulla è casuale, quando si parla di un artista come Brondi.

Sicuramente, insomma, Costellazioni è un lavoro ben diverso dai due che l’hanno preceduto. Non è sbagliato affermare che abbia sonorità più morbide, persino più pop – qualcuno direbbe commerciali, anche se per me questa parola è quanto meno fuori luogo quando si sta parlando di un album così – che i toni si siano smussati, addirittura che alcuni testi risultano comprensibili già dal primo ascolto, impresa quasi impossibile nei vecchi album. Vasco Brondi abbandona a tratti il suo modo inconfondibile di declamare i versi e prova a volte a cantare in senso tradizionale, a volte a recitare come un Pierpaolo Capovilla. Il punto è che il cantautore è stato così bravo ad esplorare questi nuovi mondi senza cedere di un solo centimetro rispetto alla sua consueta poesia che, sempre a mio avviso, l’unica cosa che si possa fare è complimentarsi per la virata.

In questi quattro anni Vasco Brondi è uscito dalla provincia – grigia e illuminata solo della luci artificiali della centrale elettrica – e ha conosciuto il mondo con tutte le sue sfumature, la sua bellezza e le sue storture.

Quest’impressione dell’allargamento degli orizzonti si ha fin dall’inizio: se la canzone di apertura sembra voler rassicurare l’ascoltatore in cerca di certezze con il suo riferimento esplicito all’Emilia, immediatamente si sente parlare dell’Africa, di Cracovia – di altro, insomma – e si capisce che questo album sarà un lungo viaggio: “Sono come la Germania o come la Turchia o come la Grecia, o come una notte passata in strada o passata in webcam. Sono un insieme di violenze e di speranze, sono un rumore di scontri e di feste.”

Poi arriva un momento di una dolcezza disarmante, con Brondi e Giorgio Canali a suonare la chitarra per raccontare la storia dell’amore tormentato fra Sara e Chiara, in Le ragazze stanno bene. “Forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell’Africa. Forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopoguerra e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della ex-Jugoslavia. Forse si tratta di fabbricare quello che verrà con materiali fragili e preziosi, senza sapere come si fa. E padre eterno che sei così reazionario, che dal finestrino atterrando guardi Venezia dall’alto, hai visto? Il loro non era un amore poi così diverso.” E quando due punk come questi emiliani dalla scorza dura si mettono a parlare d’amore diventa quasi impossibile trattenere le lacrime.

Il modo in cui poi Vasco parla di emigrazione e di lasciarsi tutto alle spalle ne I Sonic youth è talmente originale che citandone solo alcuni versi diventa impossibile evitare di sminuirlo.

In Firmamento e Ti vendi bene ecco apparire i CCCP – quelli che “non ci sono più da un bel po’” – in una riproduzione così fedele che neanche Ferretti e Zamboni sarebbero riusciti a far di meglio.

E cosa succede, poi, in Questo scontro tranquillo? Una ventata di ottimismo, forse? “Ci sarò io e arriverò, felice da fare schifo, e libererò tutti i tuoi pianti trattenuti. Non lo so, non lo so, non lo so. Luna di Milano dimmi tu, parlami di tutti i miei amici, dei nostri sogni assurdi che si sono avverati”.

Ma le coordinate della decadenza – quasi fossimo ne La grande bellezza di Sorrentino – si ritrovano subito in Una guerra lampo pop: “Negli ex quartieri ricchi un cielo grigio perla splende sugli alberi disposti in file a distanze regolari, i ragazzi per terra perdono sangue d’argento. Se solo la rivoluzione d’ottobre fosse stata di marzo o d’aprile, quando dalle colline guardavano giù verso il paese, le case, le discoteche, le chiese. E dicevano da qui tutto bene, di quest’epoca non resteranno neanche delle belle rovine. Dicevano da qui tutto bene, solo il presidente si chiede chi abbia autorizzato questo temporale.”

Per concludere, Costellazioni è l’ennesimo album geniale di un artista geniale. Alle sue spalle c’è gente del calibro di Giorgio Canali e Federico Dragogna, ci sono i CCCP, i CSI, i Ministri. Ma Le luci della centrale elettrica sono stelle artificiali che brillano di luce propria: pallida, lattiginosa, a volte brillante in sprazzi di incauto ottimismo. In ogni caso imperdibili.

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