“Ognuno è un cantastoria,

tante facce nella memoria”

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Solita bolgia sparuta davanti al Marrakech: circonferenza umana e imperfetta sul cemento, volti noti e ignoti, fiumi di birra e parole.

E mentre a gruppi di due o tre, ognuno affronta un argomento qualunque nel mare del dicibile, arriva lui: l’ubriaco notturno che attacca discorsi. Dice di avere 56, 57 poi 58 anni. Li porta bene, in ogni caso.

Un vecchio vestito da bambino che il tempo ha dimenticato di appesantire. Le rughe sulla fronte, un’aria vissuta, e capelli tinti di un biondo paglierino ridondante: rugginoso relitto tutto sommato,ma tirato a nuovo come un’auto d’epoca che conserva il vigore degli anni, una fattura ineccepibile.

Ironica macchietta metropolitana quel tale G, affetto da una tragicomica sindrome di Peter Pan così radicata nell’essere da sembrare parte di un’autentica e sana personalità. Dopo il primo pirandelliano sentimento del contrario e quindi grasse risate della compagnia, la storia si fa seria- teatralissimo neorealismo malriuscito in un vicolo cittadino. Aveva una moglie un tempo, dice. E forse dei figli. Ma riscoprendosi omosessuale e marchettaro l’idillio si è sciolto; nonostante l’offesa a se stesso e al sacro vincolo del matrimonio-dopo essere stato colto in fallo con un ragazzino- il signor G prorompe in misogine constatazioni circa la distruttività delle donne. Ma non prima di averci regalato niente popò di meno che il segreto della vita: guardarsi allo specchio ogni mattina e dirsi: “sono uguale a ieri”.

Cioè, credo, convincersi del fatto che la vecchiaia non esiste: il tempo non aggrinza la pelle né il cazzo, le responsabilità sono relative e l’esperienza non aggiunge niente a parte anni fittizi che in nessun modo mutano corpo e mente. Ora, ad un borghese benpensante, tutto questo può sembrare assurdo e a tratti patologico.

Ci si aspetta, secondo senso comune, che un uomo a quasi sessant’anni abbia tutt’altro abitus, tutt’altro modo di essere e ragionare. Non è per me il voler andare controcorrente un tipo di pochezza, anzi, tutt’altro. E neanche un “peccato” l’ambiguità sessuale, considerando conformismo e alienazione come elementi costitutivi di ogni società e quindi- il discorso si complica- la volontà d’integrazione frustrata dalla realtà genera giustificabilissime forma mentis in qualche modo “disfunzionali”.

È che, da piccola fautrice della metamorfosi quale essenza stessa della vita, per me il credere di restare uguali a se stessi è un auto-inganno, più o meno consapevole, che nega il senso della realtà. Evolvere è adattarsi ai tempi senza misconoscersi, né abbandonare la sedizione: solo mordendo il reale se nè può sputare l’acre sapore.

Cristallizarsi in idee fisse è come morire un po’ per volta man mano che passano gli anni.

È lo stesso principio per cui un ippocastano, altissimo e rigido, può soccombere al forte vento, mentre il sottile e flessibile giunco, si piega con le correnti senza spezzarsi mai- non è il più forte che sopravvive quanto il più adattabile.

La mia idea, opinabile come qualunque idea, è forgiare l’Io senza dimenticare di contestualizzarsi, muoversi col mondo, nel mondo e oltre il mondo.

Per questo non posso essere d’accordo col signor G. Tornando al fatto, noi ragazzi irretiti dall’originalità del soggetto abbiamo ascoltato le sue teorie sulla vita, tagliando ogni ponte quando la cosa si è resa ripetitiva- tipica conseguenza dell’abuso alcolico.

Ma il signor G , avendo trovato uditorio, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione dello sproloquio, da qui l’allettante offerta di un cicchetto di unicum nel suo negozio, a due passi, dietro corso Sicilia. Si, il nostro filosofo di strada ha un negozio che apre apposta per noi, alle tre di notte. Varcato l’uscio, con avida curiosità, ci ritroviamo immersi in una specie di circense caleidoscopio oggettistico che ha del parossistico. Sulla destra, appena entrata, vedo un acquario gigantesco e affollatissimo, pieno di pesci rossi di specie diverse: oranda, testa di leone,ryukin, orifiamma a coda doppia,black moor… ma così grandi da suggerire l’idea di un’anzianità innaturale, eppure smagliante e vivida, come quella del proprietario di quel variopinto bazar.

Una voliera grandissima sulla sinistra in cui frullavano miriadi di canarini in tutte le gradazioni del giallo, dall’ocra al crema al limone. Eppure quello del signor G non è un negozio di animali-lo scopriamo studio di grafica. In ogni angolo, alla rinfusa, c’erano oggetti stranissimi, senza alcun tipo di relazione tra loro: almeno quattro chitarre appese, quadri di ogni genere e fotografie modificate, un budda, cavalli di plastica, libri, una specie di lampada olimpica elettrica, computer, televisori,ventilatori, un enorme poster del quarto stato, Bertinotti, sculture di amanti che ballano,Lupin, orsacchiotti, piante di ogni tipo, un terrario, un cane di gesso,divano-letto, frigorifero pieno di birra cioccolatini e nient’altro, microonde con teglia di carne al sugo accanto ad una gabbia per uccelli vuota, bagno con tanto di posacenere in ardesia, lavagna appuntata di conti domestici, rullini, vecchissima cinepresa, teca piena di oggetti elettronici, auto-scatti a torso nudo, un Gesù Cristo d’argento, boccette di dopobarba, olio e chissà cosa,ovatta, buste sparse…in tutto quell’entropico labirinto, moto futurista, non-sense surrealista e collage dadaista: galleria miscellanea di scadente e fascinosa arte iper-contemporanea, un’arte che non si nomina, nata dal caos di ristrette esigenze spaziali, senza la benchè minima pretesa di significare qualcosa- allucinata apologia del nulla. Quel delirio di roba accumulato da secoli, rumori polifonici e colori stonati…tutto come schizzi di pittura su pareti già ingombre, in qualche modo vuote di un vuoto onnivoro, incolmabile. La meraviglia infantile cede il passo ad un’adulta tristezza, lacerante conchiglia spezzata che, infranto l’incanto della visione, comincia a ferire la pelle. Sferzate di ardente solitudine sorgono crude dall’accozzaglia di cose accatastate a spalancare la mente sull’abisso di un uomo-isola. Voyeurismo d’artista ripiegato sul ciglio prismatico della consapevolezza.

Chi è questo pseudo-Mazzarò ebbro di se stesso e della sua roba? L’orgoglio di scoperchiare quel suo individualissimo formicaio orrorifico è quasi inconcepibile, come quando qualcuno risponde ad una domanda mai proferita o sbandiera un vizio perverso a sconosciuti. Le ginocchia del signor G tremano sotto il flusso continuo delle parole, frante e biascicate nel silenzio della notte. L’allucinato e corroborante afflato della visione sottentra all’ascolto già calante. Il verbo prezioso dell’anti-guru si perde anch’esso nel vuoto strutturale della lunga stanza claustrofobica. Mentre G rincorre le nostre ombre perde fatalmente un pubblico saturo, esausto. Torna così affranto all’uscio del suo Inferno mascherato da Eden.

Camminando lenta verso casa mi prende la coscienza della catabasi, del bagno nel cuore di tenebra dell’umano-l’urlo del Kurtz conradiano. Continua dopo quest’esperienza metafisica il mio personalissimo viaggio nel Paese delle Meraviglie. E se io sono Alice e il Bianconiglio quella pace che da sempre inseguo, il signor G non può che essere il mio Cappellaio Matto.

Unicum al posto del tè.

© Delia Cardinale

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