C’era il foliage a ricoprire tutto, anche il sentiero che non esisteva, e nel quale gli scarponcini da trekking affondavano con fatica. C’era la vetta, l’acqua che cascava, le birre artigianali, il saluto che non sapevi se ci potevi aggiungere un bacio – che assurdità: neanche ci conoscevamo, prima di quel giorno, siamo irreparabilmente meridionali.
Ventitré febbraio.
Una data indelebile.
L’ultima domenica di quel mese dopo il quale dovresti cominciare a stipare nell’anta segreta dell’armadio i pomeriggi bui e i maglioni di lana.
Tutto sembrava pronto per la primavera, e invece ci siamo ritrovati già nel caldo torrido di un’estate strana, grondante illusioni che ce l’avessimo fatta e che tutto ciò era venuto prima fosse stato una specie di incubo.
L’autunno, invece, è attesa della fine per antonomasia, la stagione degli addii: a metà ottobre ti ritrovi stupefatto di fronte a un mare irrinunciabile, ti ci tuffi e poi – prima di tornare alla cruda realtà fatta di sabbia ordinata in instabili castelli – lanci un’ultima occhiata verso il blu che hai dietro e ti chiedi se sarà l’ultima volta.
L’unico vantaggio di essere in autunno, piuttosto che una falsa promessa di primavera, è che sei preparato: se dici a qualcuno che da domani non rivedrà mai più la persona che ama, non vorrà forse vivere ogni momento di quell’ultimo giorno con un’intensità enorme, seppur agrodolce? Non ne ricorderà ogni attimo, anche se non sarà una giornata memorabile?
Ecco: in autunno siamo più realisti anche nelle frasi fatte. Se a primavera ripetevamo come un mantra l’utopistico “ne usciremo migliori” oggi, almeno, cerchiamo di imparare a vivere ogni momento come se fosse l’ultimo.

Testo e fotografia di Manlio Ranieri

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