Avevo la Sicilia tra le dita e tutti gli elefanti di Bangkok, i giochi di prestigio, pulpiti e Baccanali. Il mio piccolo epos da discariche abusive e fili elettrici, inutile come il tentativo ennesimo di farsi piacere l’indivia e i centri commerciali. Lei mi prendeva senza guardare, come gli svincoli sgombri, l’ uscio di casa o la gomma da masticare. E diventavo per questo centauro, spigolo e veleno. Cantami o diva l’ira funesta. Dimmi  di questo tempo sprecato a rincorrermi, sperando sempre che qualcun altro mi superi per non rallentare.  Tutto ciò che non accade, mentre l’analogico soccombe al digitale e lo straniero sotto casa mi chiede cibo per cani. La sua brutta grammatica su fogli logori che non so decifrare. Aiutami, mi dice.  E parlano gli occhi, le mani dove tutto il resto si annoda. Sarebbe bello decidere questo silenzio sensoriale alla prossima sconosciuta. Rischiare la perplessità della codifica e godere un nuovo nulla di cigni austeri. Lenti, bellissimi e inutili. Cantami o diva l’ira funesta. Dimmi dei gargoyles sulla tiara gotica di Nostra Signora, dei relitti che sputano incubi dal fondo di tutte le cose che mi sono più care e di tutta la bellezza che indovino lungo i viali. Lei mi amava come si amano i contrari, nella sinonimia periodica del guardarsi intorno specchiandosi nelle vetrine.  L’attitudine di correre contro l’unico muro in un campo aperto. Per poi bruciare la casa delle bambole in cui avevo riprodotto in scala certe speranze per prendermi in giro con l’arte. Cantami o diva l’ira funesta. L’estro di strega che rifiuta l’abiura perché crede in qualcosa di più vero della Realpolitik. L’ultimo stoppino annega nella cera dell’indifferenza. E io non so più cantare come Orfeo. O diva. Non posso portare indietro nessuno dall’oltretomba. Cantami l’ira funesta. Non la mia, né quella di Achille. Dimmi dello straniero sotto casa, dell’ingiustizia sociale, dei logaritmi propagandistici e delle rivoluzioni possibili. Parlami di qualcosa che trascende il mio piccolo mondo antico, al di là di simboli e metafore, oltre tutta la mitologia personale delle sporche Dulcinee che non sanno più ingannare. Portami più su o più giù, ma non qui, tra le foglie d’autunno e l’accademia. Cantami o diva l’ira funesta. Quando non mi era in circolo e la nonna stendeva i panni. Dimmi delle donne portoghesi a mezzogiorno e dei serpenti somali. Portami dove ha senso ridere e soffrire, lontano dalle Borse e dai borsaioli. Cantami o diva l’ira funesta. Perché non mi fa dormire e  riporta i gatti della strada, l’incidente e l’odore delle industrie. Sciogli il ghiaccio dall’armatura, poi il ferro e la pelle, i nei. Cantami o diva l’ira funesta. Perché possa metterla in tasca e smettere di uccidere. Dimenticare lo sdegno e raccogliere margherite con i petali dispari. Come gli spicchi dei mandarini e le divisioni col resto. Lei non capiva me e io non capivo lei come non capisco la città e il 1929. Mi mancheranno sempre almeno sessant’anni per capire le cose importanti. Ma sono sicura che a lei molto di più. Questo mi rattrista. È atroce saperlo. Come la storia dello scorpione che è la mia storia. E tutte le Furie mi sragionano, gli artigli nel petto e il volto di Maria Vergine. Cantami o diva l’ira funesta. Del tempo. Di questo traditore che ci inganna sempre ma non ci conosce. Ecco…cantami o diva….l’ira funesta. Cantami la guerra dei Trent’anni. E di questa natura.

Delia Cardinale

Uno scorpione doveva attraversare il fiume, ma non sapendo nuotare, chiese aiuto ad una rana che si trovava lì accanto. Così, con voce dolce e suadente, le disse: “Per favore, fammi salire sulla tua schiena e portami sull’altra sponda.” La rana gli rispose “Fossi matta! Così appena siamo in acqua mi pungi e mi uccidi!” “E per quale motivo dovrei farlo?” incalzò lo scorpione “Se ti pungessi, tu moriresti ed io, non sapendo nuotare, annegherei!” La rana stette un attimo a pensare, e convintasi della sensatezza dell’obiezione dello scorpione, lo caricò sul dorso e insieme entrarono in acqua.
A metà tragitto la rana sentì un dolore intenso provenire dalla schiena, e capì di essere stata punta dallo scorpione. Mentre entrambi stavano per morire la rana chiese all’insano ospite il perché del folle gesto. “Perché sono uno scorpione…” rispose lui “E’ la mia natura.” ‘

[favola attribuita a Esopo, ma di probabile derivazione indiana]

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