Cosa resta del giorno? Cosa rimane ancora in noi come una scoria difficile da dislocare se non nell’ambito muto del dissenso, o peggio, dell’Apocalisse dei sensi? Pensiamo, armati di convinzione e sulla scorta di essa medesima, di essere invincibili agli attacchi minuscoli della vita, con tutte le sue leggi solide, che si manifesta nei momenti in cui il sorriso maschera la perdita definitiva di sé; è della vita che troppo spesso abbiamo paura, dinnanzi alla quale cambiamo strada, speriamo che prima o poi compaia il cartello con la scritta “diversivo” o “sesso” o “inezie”. Le strategie diverse che si adottano per combaciare in maniera netta e conformista con le maschere, sono molteplici, tuttavie unite dall’ora comune del sorriso o del riso (isterico). Possiamo passarle accanto, sicuri che si è fatti soltanto il proprio dovere come Anthony Hopkins maggiordomo e protagonista non principale in Quel che resta del giorno (1993) film che procede a ritmo lento ma che comunica bene l’incedere soffocato del cuore in mezzo ad una torre di libri nella biblioteca del milord Darlington nella primo novecentesca hall  nei pressi di Oxford in un’Inghilterra, almeno per me, non abbastanza interessante quanto la sua sorella vittoriana, tuttavia, per la fotografia, ancora pura e verdeggiante come l’animo del suo reggente; cosa resta realmente del giorno fondamentale del film? Ovvero, la riunione ai piedi della seconda guerra mondiale dei massimi delegati europei in quella dimora tanto pulita quanto impossibile? Resta la vergogna, l’illusione, la morte, quella fisica del sotto-maggiordomo (padre di Mr. Stevens) e la morte dei sentimenti, quelli di Mr Stevens (mai compiutamente espressi, “per lui esiste solo il lavoro” dice la  pudica governante altrettanto inglese, Miss Kenton, nonostante cerchi in ogni modo di distoglierlo dal suo piano-base, l’obbedienza all’aspettativa paterna (“ciò che rende un buon maggiordomo è la dignità, pari all’autorità e alle responsabilità della sua posizione” dice Mr Stevens senior durante il pranzo della servitu), egli rimane comunque fedele alla propria strategia, consistente nelle reazioni ripetute prive di emozioni e di coinvolgimento, almeno esteriore, tanto è che la medesima Miss Kenton (Emma Thompson) capisce a pieno il valore della sua atarassia, e dice “perché lei Mr Stevens deve sempre nascondere quello che prova?”. Ho scelto questo film, perché per rispondere alla domanda iniziale, riguardante ciò che resta poi realmente del giorno o della vita che vive, è adatto nel suo lento incedere della Darlington Hall, a descrivere la rinuncia del cuore ai suoi risvolti pratici; gli ambienti perfetti, l’orologio dei compiti individuali, la calma quieta di Lord Darlington nella sua biblioteca abbondante di mogano e volumi di cultura varia in abbondanza, il castano dell’atmosfera in generale, il fuoco che nel braciere riscalda la morale tiepida dell’inghilterra dell’onestà e dei sani principi, oltre all’obbedienza entusiasta delle nuove assunte, ricreano un tempo celeste di sostituzione alla via reale e dunque alla rinuncia a vivere quella vita concreta che giace imperfetta al di là dei cancelli e che si incontra sporadicamente nelle visite fuori alla fine del film (quando Mr Stevens è al servizio del nuovo Lord. Il Mr Lewis, americano mascellone, pratico e indegno sosituto del suo precedente Lord inglese) o quando Miss Kenton decide con poca considerazione di abbandonarsi alle avance di un suo amico, anche lui domestico, bevendo qualcosa di troppo, arrivando addirittura a sposarlo, ma non può durare. La legge della rinuncia non lascia spazi a chi vuole trasgredirla, finirà in un matrimonio infelice, riportando Miss allo stato di coscienza di quando ella stessa aveva detto no al matrimonio di una domestica, disposta a perdere un introito economico sicuro, pur di avere l’amore, “abbiamo noi stessi, non ci importa del denaro”. Mr Stevens maggiordomo di  Darlington Hall fa si che tutto il suo essere vada a perdersi definitivamente nelle pieghe precise della sua divisa da domestico graduato (l’imitazione della vita, come in ambito militare, presuppone l’invenzione di una gerarchia, chi più rinuncia alla vita, tanto avrà di merito nella sua ricostruzione in miniatura, ovvero la bellezza spolverata della dimora inglese di  Darlington Hall) nessuna traccia di affaticamento o di deformazione sentimentale può farsi strada sul suo viso, a metà tra l’inespressivo e l’automa che muove le soppraciglia in modo algoritmico, sempre indentico qualora sia stimolato in un determinato modo. Per lui esiste soltanto il lavoro, il sacrificio, la pulizia, impartire ordini e raggiungere stati grotteschi, come quando avvertendo il pianto di Miss Kenton, entra pacatamente e pur vedendola in lacrime le ricorda di spolverare un oggetto dei tanti del salone della Darlington Hall, ovvero l’alchimia impossibile. La ricostruzione di un ambiente perfetto, circondato dalla linfa vitale del miglior prato inglese, non basta a vincere la vita reale; sotto le mentite spoglie di un’esistenza tranquilla e perfetta, la decadenza ha messo le sue radici nel profondo, nel volto isterico di Miss Kenton e in quello pallido ma fiero di Mr Stevens. Mr Stevens è sicuramente innamorato della governante, tuttavia cela questo sentimento al punto di farlo agire all’esterno come fautore di sentimenti esattamente contrari e finanche aggressivi. Simile all’amore che si trasforma in odio e distanza e l’atteggiamento alla notizia della morte del padre, freddezza e distacco esteriore, inferno interiore. Del giorno e di quei giorni perfetti resta la rinuncia, all’amore per i due domestici e ad un mondo di pace e lealtà che sognava l’anima inglese nei panni di lord Darlington. La fotografia di questo film è notevole, aiuta ancora di più a rientrare nell’alchimia impossibile creata dai personaggi, ad esempio quando Miss Kenton scopre Mr Stevens  a leggere un romanzo d’amore nel suo angolo privato e lì che “nei momenti intimi” del maggiordomo si coglie la chiave di volta del progetto-rinuncia: la vita che si perde nell’uomo-macchina, viene inserita nell’ambito del sogno. Mr Stevens vive l’amore che vorrebbe nelle pagine di una novella. Ma la scelta del tema amoroso nel libro non è affatto casuale, la biblioteca di Lord Darlingon è  satura di volumi di ogni tipo, avrebbe potuto “per approfondire la sua cultura” leggere anche altro, filosofia, economia, diritto; sceglie la poesia, perché è l’imitazione della vita sua stessa, calcificata nella struttura dell’eleganza da maggiordomo, o nei capelli impomatati o nella bellezza dei modi educati e ricercati. Dal 1993, l’anno di uscita del film al 1999, la cinematografia stupenda degli anni novanta ci regala un piccolo saggio sulla contropartita necessaria alla rinuncia del The Remains of the Day, è American Beauty. Inutile ripetere l’attenzione che porta questa pellicola alla fotografia, tipica del decennio degli anni novanta, pulita, rispecchiante gli spazi e l’anima, forse, ancora pura dell’umanità in generale. Non è una semplice rappresentazione grafica degli spazi americani della fine degli anni novanta alle porte del millennium bug, ma è una precisa intenzione di significato. Le locandine del film sono portatrici di due valori: a) sensualità adolescenziale b) la bellezza delle rose rosse. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’adolescente quindicenne (Angela Hayes) è sinonimo di apparenza di successo, allo stesso modo del detto dell’amico della madre agente immobiliare  “per essere di successo bisogna dare un’immagine di successo, in ogni ambito della propria vita” (Buddy Kane), che si traduce nei modi sensuali, tesi all’ottenimento dell’approvazione di tutto il sesso maschile, al dare di sé un’immagine di donna erotico-ascendente, esperta e “non bachettona sul sesso”, che non vuole essere assolutamente “una qualunque”, ma che poi si rivela essere vergine sessualmente, insicura, che si considera insignificante. L’altro significato che si comunica è la rosa. In tutto l’organismo di fotogrami che si sviluppa nel corso di due ore, la fotografia magistrale, degna soltanto di quegli anni, ci mette in primo piano il rosso. Questo colore, sinonimo di vita, domina gli spazi non abbastanza vissuti di una bellezza americana che c’è ma non la si vuol vedere, come la vita che vicino Oxford, si evita mettendola sotti i tappeti. Non è la prima volta che un regista insiste su un colore per comunicare un’idea, ma qui è un appello al risultato finale che ci mette in guardia. Alla fine il 43 enne Lester Burnham muore, ucciso da un padre-colonnello-omosessuale che non ha saputo cogliere il rosso. Sono rosse le rose come quelle di cui è pieno il letto nel quale giace Angela Hayes  in una delle prime parti del film, nell’immaginazione alterata di Lester Burnham, che risponde all’appello della vita, una volta tanto, osservando il visetto malizioso di una incerta donna-bambina. Sono rosse le rose che fanno da ninfee nella vasca da bagno dove è al bagno Angela Hayes, sono rossi tanti altri dettagli, sono rossi e belli, perché questa è l’american beauty, la bellezza di un gruppo di stati che esteticamente e moralmente è al di sotto della nobile Inghilterra, della quale condividono solo una grave distorsione nel linguaggio. Entrambe le pellicole, seppur in modo diverso, invitanto chi ne fruisce a cogliere l’attimo. Perché essere arrabiati se c’è tanta bellezza nel mondo? Suona come uno slogan anti-fascista, in realtà è un atteggiamento che risale alla preistoria, a prima che ci fosse un uomo in grado di concepire la realtà esterna e di parlarne. Già prima del primo uomo, Adamo, la bellezza è. La creazione è bella, ciò che chiamiamo vita, il mondo vegetale, e tutto ciò che non è animato, già da tempo ha lanciato il suo grido, il suo consiglio materno. “Ascoltami” dice il mondo, vivi questa bellezza che ti è data e che non devi barattare con un pegno. Vivi la vita non fare come la consorte di Lester Burnham che sosituisce le cose  alla vita in sé. “questo non è solo un divano, ci è costato quattromila dollari” ma in realtà è soltanto un divano e non può parlarci.

 Giovanni Sacchitelli

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