L’angustia del torace sulla pista d’atterraggio, ai colpi di rock e violini, flauti-fagotti: un piccolo Wagner furioso, sotto il loggione sinistro dello sterno. La compressione e un nuovo vestito, per l’asfissia dell’eco, di tuoni e risate, orchestre sinottiche d’archi e percussioni, dalla gola agli alveoli. Muto ricamo d’arazzi lontani e una piccola fuga sonora. Ridicolo singhiozzo sfuggito alle labbra, inutile soffio su vele ammainate, lungo il giardino, l’inesorabile ripiegamento nel contrario rituale, e quell’incapacità di restare in piedi, tra la gente. Comando sacerdotale dell’auriga interiore, verbo silenzioso nella danza sabbatica. E lo scrutare da lontano, scorrere disordinato e nodoso di fluidi a diversa densità, in culo ad Archimede. E riflessi madreperla ai margini, dove si respira e quella luna piena sul disagio, prossima a precipitare in un paio d’occhi scuri, frangendosi sulle ciglia, onda d’argento che strappa un sorriso bagnato. Insensato. Per quell’inutile bracciale di un brutto colore. E per un altro che consuma il polso. E il naufragare sterile di marosi indistinti, caustici dal di dentro, per l’odio e per l’amore e tutto ciò che si perde. Eppure è un giorno di festa, da lasciar scorrere tutto. Quegli occhi, la stanchezza, ciò che non può tornare. I libri, l’ufficio, le parole e la paura. E la fragile speranza di trovare qualcosa d’intatto, non fosse mai esistito l’ aratro. Mentre Wagner si spettina nel chiassoso divenire. Una richiesta disperata, sotto l’incudine del sentire: quel tendere la mano. Come al principio, dalla sfrontatezza della gola all’umiltà dell’omero. Come al principio senz’attese. Ed è un attimo, la consapevolezza: si smette di brillare. La forza di gravità supera la capacità di coesione. Ciò che era non è più. Ed è forse stato un lentissimo domino o un improvviso impossibile. Forse gli errori, le varianti, l’incomprensione, la paura. Per quante e quali siano le cause è tempo di effetti.  Un petto da uccello, l’idea del volo e le ali spezzate. Un sapore di cenere e il galoppare assordante tra i polmoni.  Quella musica di ieri, s’è fatta rumore, nuca e distanza.

E una tenerezza sola aziona la manovella: un vecchio meccanismo, che teme la ruggine, si romperà, rallenterà le note  e i pezzi di ricambio sono sempre fuori commercio. Non si può vivere nei negozi d’antiquariato. Ma è una dolce libertà, cattiva come gareggiare col tempo e irreale come le favole che raccontiamo ai bambini.

E finchè saprò ascoltare, non voglio… io non voglio smettere.

Delia Cardinale

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