“Mi hanno circondata. Io le guardavo nelle orbite vuote, due inferni profondi e senza fiamme, mi volevano toccare o forse uccidere, poi mi sono svegliata di soprassalto ed ho visto che mia madre dormiva tranquilla, la collina delle spalle che si alzava e abbassava, così mi sono rifugiata tra le sue braccia e mi sono riaddormentata”.

“Dorme ancora con sua madre?” – la sua proiezione, quella più disinibita di lei, picchiò con forza la testa sulla scrivania di legno massiccio – “dunque, le capita di frequente di avere degli incubi? Voglio dire, è per questo che dorme ancora con sua madre?”

Potevo vederla quella risata, cercava di ricacciarla dentro, dietro le piccole labbra increspate. Avrebbe voluto imprigionarla tra i denti ma si lasciò sfuggire un sibilo. O forse no, forse non rideva di me. Il viso rotondo, gli occhi da ratto, piccoli, rapidi, troppo vicini,  lasciavano poco spazio al naso adunco. Il caschetto, i capelli sottili. Tutto in quella donna dava un’idea di disordine che io, dopotutto, conoscevo molto bene.

“Mia madre è morta, non c’è più, vivo da sola.”

“Capisco” – fece una pausa, non aveva capito niente – “mi ha detto di essersi rifugiata tra le braccia di sua madre, perché?”

“Perchè sognavo. L’ho sognato, in quel momento ho pensato di averla vista. L’ho vista. Vedo tante cose, vivo tante cose. Vado in molti posti con questa”, il gesto meccanico di puntare alla tempia con l’indice lo ripetevo continuamente, come se volessi sottolineare che la mia testa fosse un congegno raffinato e che lei,  strano miscuglio di contrasti tra la morbidezza delle forme e la minuteria dei connotati, non poteva di certo capire. Serrò le labbra sottili.

“Questo, il mio cervello, è un meccanismo costruito con lamine d’oro intagliate. Talmente sottili e delicate da renderne impercettibile il movimento. E’ prezioso tutto quello che ho qui perché posso dimenticare di vivere in una vecchia casa abbandonata, riempita di echi solitari, polvere e vecchi giocattoli, li ho tirati giù dalla soffitta insieme al corredo di mia nonna. Quello buono, quello che si è ricamata a mano, tutto lei da sola. Ho deciso di usarlo perché tutte le vecchie lenzuola ormai sono bucate e io odio i buchi, mi fanno paura, penso a quello che c’è dentro, penso a quello che si è perso nello strappo profondo che non si può ricucire.”

“Allora come li riempi quegli spazi? Perchè hai paura di tirare fuori quello che c’è dentro i buchi?”

“Non li riempio. Che domande!”

“Non devi agitarti, sono solo delle domande, così per conoscerci meglio, posso darti del tu?”

“L’ha già fatto prima, io continuerò a darle del lei, o forse no, dipenderà da quello che mi viene sul momento. Io ho solo nostalgia di quel tempo passato, perché il presente mi fa schifo. Perché il presente è inconcludente. Vivo una vita ripugnante, in solitudine, perché tutti quelli che mi stanno intorno sono diversi e non mi capiscono. Li odio, perché sono felici, perché per loro è facile stare assieme, usano lo stesso torrido linguaggio, torrido, soffocante. Mi sento soffocare da tutte quelle chiacchiere, non le sopporto. Mi stuzzicano e poi mi lasciano in un angolo a trastullarmi nell’ignoranza.”

“Tu li temi.”

“Si, forse è così.”

La copertina: Brain Damage (Screaming Abdabs), Pink Floyd

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