Prima era tutta un’altra storia…ti dovevi preoccupare di comprare i gettoni o la scheda telefonica…e fare la fila alle cabine. Le giornate erano piene di cose concrete e bisognava trovare davvero il tempo di fare quella chiamata, a quella persona, in quella determinata ora. Non c’erano sprechi nè dispersioni, solo verità e desiderio. Oggi l’overdose comunicativa non dice niente più di ieri. Niente di utile, anzi: è un deterrente. E vedo persone che si fanno la cronistoria quotidiana tramite messaggi, attimo per attimo….poi s’incontrano e non sanno che dirsi. S’impoveriscono i contenuti a favore di sempre nuove forme. Ci siamo strappati di dosso perfino la bellezza dell’attesa. E con una leggerezza infinita cerchiamo di essere presenti per un attimo nella vita di qualcuno, senza che c’importi; tant’è che se incontriamo quel qualcuno per strada a stento lo salutiamo. La verità è che la maggior parte dei rapporti umani sono superficiali, e pochi sono disposti a rinunciare- aspettare- sacrificarsi per un’altra persona. E quei pochi che lo fanno, se non trovano contrappunti, s’irrigidiscono. L’egoismo genera egoismo: è l’era del privato no? Di mulini soli, monitor e monoporzioni. Pochi legami autentici, poca vera condivisione. E siamo bravissimi a farci dei nemici, annullando ogni sfumatura:o mio o tuo. Se tu hai io desidero avere al tuo posto e se ne ho la possibilità ti porto via quello che possiedi, anche se non ne ho bisogno: è la sola idea di non avere ciò che un’altro ha, ad essere inaccettabile.

HOMO HOMINI LUPUS.

Prima era tutta un’altra storia…anni fa..o forse solo nel mio giacobinismo utopico e in certi posti dell’Africa. Eppure me ne raccontavano di storie i nonni e loro non conoscevano le favole. Si comprava poco all’epoca. La casa un’officina e ai miei occhi tutto un’opera d’arte: dal pane alle camice, dal sapone alle bambole: pupe di pezza. Già da bambina amavo il passato e facevo le pupe con la nonna: nient’altro che stracci a cui formavamo una testolina legandoli col cotone. I capelli con la lana, a volte cucivamo braccia e gambe, ma non sempre…gli occhi, la bocca e qualche vestito, ma non sempre. Mi piaceva disfarle alla fine, come se morissero. E giocavo così, inventando storie. Oggi, a venticinque anni, mi guardo intorno e sembra che le pupe di pezza della mia infanzia abbiamo preso vita. Vuoti involucri senza emozioni o volontà: bottoni opachi negli occhi, senza luce: una monocorde fiera dell’apatia.

Da bambina riuscivo a bastarmi. Ero felice, col mio cimitero di bambole…

Ma, prima… prima era tutta un’altra storia…

Delia Cardinale

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