Potrei essere qualunque cosa…per te, per me, per tutto il mondo. Potrei scegliere una forma e cristallizzarmi, cominciare a morire come Mattia Pascal. Potrei usare parole auliche e indossare un papillon, vestire di lino e seta, accavallare le gambe a tavola e usare le posate giuste per ogni portata…ostentare ciò che so a memoria e quello che conosco appena come se lo possedessi davvero. Potrei essere un contadino con le mani sporche, se preferisci così. O un marinaio che ha visto tutti i porti di questa terra, un virtuoso della parola, retore, giurista, medico, funambolo. Vestire i panni del libertino e offrirti oppio e assenzio. Sono l’artista schivo e l’animale da palcoscenico. Pierrot e Arlecchino. Bacco e Orfeo. Corde d’arpa e percussioni. Potrei dirti delle costellazioni e dell’ipnosi, di peyote e paroxetina. Potrei essere uomo e donna, a seconda del capriccio. Veleno e ambrosia, preghiera e bestemmia. Potrei darti l’osceno e la castità. E dirti dal vento quando comincerà il temporale.

Potrei anche lasciarti attraversare i binari di tutte le personalità che so indossare e farti impazzire. Ma ho smesso il trasformismo a vent’anni. Come il vizio della perfezione e l’essere ammirato a tutti i costi. L’assassinio della personalità oblativa ha spezzato le catene delle attese. Non m’importa più collezionare consensi. E tutto questo spasmodico coltivarmi ed espandermi in ogni senso mi porterà a doppiare la solitudine, all’infinito. Ma è la sola regola eroica: non presuppore l’altro da sè per essere liberi. Oltre il giudizio, oltre i meccanismi immunologici che portano alla diagnosi esatta del male. E tu, come tutti, rispondi a schemi comportamentali prevedibili. Sono esausto della matematica umana e del dolore fittizio che ognuno ostenta per giustificarsi. Anche Lucifero lasciò il cielo piangendo. Ho scelto di essere quello che sono: insieme Giuda e Cristo e non lo nascondo, nè ho da dimostrare nulla. Nello sforzo di lanciare una corda il proposito è fermo, sincero come la luce bianca. Non tremano più queste mani. E la foschia negli occhi non è che l’esubero di un desiderio costante con cui imparerò a convivere. Come col mondo e i massimi sistemi. Mangerò quando avrò fame. E con la copertà strappata il mio corpo non s’arrende al gelo.

Tu giochi a campana mentre io disegno le pietre: non ho mai amato i numeri, nè seguire traiettorie definite dal caso o visitare luoghi per riempire il tempo. Tu indossi maschere suadenti in cui vedo solo crepe, io con le mie ci ho fatto una lampada. Riciclo un’immagine di te tra le mie braccia per ricordarmi di non credere alle parole: coriandoli nel vento di un giorno qualunque.

E se tu sei un inganno tattile, di carne e sangue…io sono agli antipodi del tuo essere: zenit e nadir, x e y, materia e anti-materia…

Delia Cardinale

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