Sembrano scorrerle dentro: rugginosi binari di un ritorno sempre amaro. C’è la sua famiglia, dall’altra parte, ma non l’avrebbero riconosciuta. Come l’ultima volta. Qualcuno le ha regalato un segnalibro, prima di prendere il treno. Lo affida a Faulkner sfogliando il libro dolcemente, come sfilando una guepiere alla puttana di turno, compagna di una notte che arpeggia col sentire, in un lampo, in una visione. Le basta questo: uno spiraglio di luce da rapire…dalla carta, dai fianchi, dalle foglie autunnali. Pensa a quando, da bambina, scivolava sugli sterpi arsi di una qualche remota collina, graffiandosi la schiena e ridendo del suo gioco solitario. Pensa a quando faceva l’indiano: ditate di nero da tutti i posaceneri e danze sciamaniche sui cornicioni. Già da allora aveva la tempra, se non l’aspetto, di una piccola guerriera. Ed è la vigilia di Natale, ma non lo sente. Troppi di questi giorni sonoo trascorsi nel vuoto…a contare le luminarie per strada, guardando le scarpe dei passanti per immaginarne il volto. E gli uliveti? Lì, nel profondo sud, dove ha sepolto un confetto d’anima: proprio là, sotto casa nei nonni. Gli uliveti che si lasciano sfrondare a dicembre, come il suo cuore nostalgico e le scelte sbagliate. Non può dimenticare: la voragine dentro, gli occhi delusi intorno, quell’essere predisposta alla sedizione. Nessuno l’avrebbe mai detto: la parvenza di fragilità è sempre stata un ossimoro beffardo. Essenza del giunco che si piega alla tempesta, senza mai spezzarsi…guardando querce e frassini rovinare al suolo: ironia del domino che abbatte tessere tutte uguali. Il fagotto sull’omero, quasi vuoto, ma così pesante. L’ultimo sguardo a sua madre che non poteva capire: l’aveva portata nelle chiese a cercare ciò per cui non era nata. Scorrono i fotogrammi del mondo, indistinta realtà incisa sul finestrino: le è sempre sembrato ridicolo vedere se stessa immobile, nel riflesso…e tutto attorno in moto, irrefrenabile. Come quando sua madre voleva tenerle la mano e lei non voleva, accettava solo di tenerle il dito: doveva essere libera di correre via e perdersi…sedersi poi nel bel mezzo della via e stare a guardare. Cosa non lo sapeva. Quando camminava non riusciva a non immaginare l’edera che cresceva sulla strada, coi suoi passi. Le è sempre piaciuta quest’immagine, la usava anche in auto quando i suoi la portavano chissà dove e lei, lei si annoiava. Se le avessero chiesto perchè rideva avrebbe risposto che l’edera la segue sempre. Avrebbe capito anni dopo il significato di quelle allucinazioni, ma anche allora non avrebbe scelto l’ordinario. La fedeltà dell’edera è commovente. L’edera non l’avrebbe mai lasciata. Ed è sempre la vigilia di Natale, in qualche modo: l’attesa di un giorno in cui venire al mondo. Poi si scopre di essere già nati e che la bellezza è solo nella pazienza di aspettare, quindi una specie d’illusione. Stesso principio per cui un’ idea supera sempre la realtà, per chi ha i suoi stessi occhi ovviamente, per chi non si accontenta mai. Ci sarà sua madre alla stazione, in attesa. La immagina calma e a braccia conserte, con una sigaretta sottile tra le labbra. L’abbraccerà e sarà come una pugnalata, per tutta la rabbia, per la mano chiusa a pugno e per la dolcezza di plastica che la fa sentire malata, irrisolta, frantumata. Non è più riuscita a trovare tutti i pezzi e sua madre la guarda attraverso gli spazi vuoti . Eppure lei non ha mai smesso di bere vino, di ridere o ascoltare musica: troppo tempo è stato sprecato e c’è così tanto da fare. La stasi della contemplazione non le dà più lo stesso entusiasmo di quando era bambina: assuefatta a tutti e cinque i sensi, nell’empirico, è ormai come un laboratorio in bilico tra rivelazione ed esplosione.

E mentre il treno corre nel buio, una strana sensazione di gioia…

 

Delia Cardinale

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