Il grido strozzato nel vento: inverecondo alterco tra suono e silenzio. Ascoltasse pure, la donna, questo canto babelico di sirene morenti, senza carpirne il senso di allegra decadenza, al limite del raggio percettivo, dove l’udito sfuma nel miraggio. Come pianto agli ultrasuoni o fischio lontano di un treno già passato, il monologo di un’anima che a tratti scolora sul ciglio delle labbra. E non rantolo di morte, nè gemito di piacere, non una parola lungo i cerchi concentrici del suono che più non si propaga. Visione muta di un sasso nel fiume, cerchi nell’acqua senz’audio. Tutto questo franto nell’aria parabolica di una città votata all’entropico rumore che non smette, viziosa di motori parole clacson martelli pneumatici sirene venditori ambulanti frenate passi svelti… trionfo del rumore e tra le spire del vortice uditivo, un sussurro. Preghiera in sordina di un uomo genuflesso sulle macerie di una qualche esplosione, campi d’ossa fittizie coperti di vedove. Tale il compianto dell’innamorato che veglia un sentimento che trema, a metà tra l’urlo trattenuto e il rassegnato sospiro. Battito di ciglia e il castello di carte crolla, un cemento si crepa, l’acciaio fonde nella fabbrica. E lui vorrebbe trattenere la sua donna, dirle che si sbaglia, ma persa la parola si rigira i pollici all’ombra immane di un grattacielo. Le coglierebbe un fiore di campo, se trovasse un giardino. Per questo, a lungo, ha camminato le strade, a capo chino, ritmando col passo la paura che divampa. “l’ho già vinto tutto questo…ho ricucito le vene spezzate dallo fatica, nella costruzione di un amore” direbbe, se sapesse ancora parlare. Ma non sa più dire e resta immobile a contemplarsi, opera d’arte vetusta che ha perso lo smalto, silente torre antica che il tempo frusta da sempre. Strategie per non affogare e pugni colmi di vuoto. “Basterebbe una sua parola..”- pensa. Ma forse desiderando un minimo atto di benevolenza che non cercherà. Esausta la schiena per tutti i macigni, vitreo l’occhio che più non s’illude. Il “giovane dio” s’è fatto “uomo”e l’esperienza gli ha disegnato in volto “il morto sorriso che ha compreso”. Per questo forse non ha più niente da dire, nè velleità da assecondare. Muto sulla stessa panchina di ieri immagina i fianchi della sua donna. Sapesse leggerle l’anima, avrebbe sempre le parole giuste, ma vive d’inerzia aspettando l’affondo. A capo chino. “È forse una maledizione”-pensa-” o un’irrisolvibile natura fiduciosa sempre frustrata”. Per questo la delusione non smette di bruciare e si scuciono tutte le cicatrici. Eppure lo sa, sa che non deve aspettarsi niente. Aveva deciso di sprecarsi a prescindere, per il gusto di dare seguendo gli impulsi- per troppo tempo aveva taciuto. Ma forse ogni logica è fallimentare. “Vale la pena?”- si chiede, rispondendosi sempre di si. Nonostante il dolore. Aspettando che la voce ritorni si guarda le scarpe. Hanno camminato così tanto e visto così tanti luoghi, fisici e metafisici. Anche se innamorato non può cambiare, ci ha provato, un tempo. Ma una sorta di ribellione gli ha sfilato via i sentimenti e ogni donna smetteva di essere un scelta, cambiava forma fino a costruirgli intorno una specie di gabbia. “Non posso tradirmi..”-pensa guardando i piccioni, sulla panchina sotto al grattacielo. E spera che gli sia riconosciuto il voto che ha fatto alla sua donna. In definitiva non ha rimpianti, ha fatto il possibile. Chiedergli altro è impensabile, quasi disumano. “Non c’è niente da dire..”-afferma sicuro, dopo giorni di silenzio. E riprende la via di casa, sicuro di trovare la sua panchina l’indomani, fedele e muta, ad aspettare i pensieri di un innamorato.

© Delia Cardinale

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