“Anche a te / capitava di sentirti sopraffare da una domanda semplice / e avere voglia di dissolverti nell’aria / pur di non rispondere / e prendere in prestito le lacrime di altri / quando le tue erano ormai evaporate”
Si apre così l’album del quartetto torinese “Il terzo istante”: con un manifesto di dolore ed estraneità dal titolo, molto significativo, “Dissolversi”.
Nove tracce che sfuggono a qualsiasi accostamento e catalogazione ma fanno presa come pochi sui lati oscuri dell’ascoltatore.
Il rock del Terzo istante è raffinato, scivola fra pianoforte, giri intriganti di basso, batteria mai lineare e una chitarra che non diventa distorta molto spesso, ma quando lo fa graffia, attacca senza mezzi termini.
Per trovare delle coordinate, forse, dovremmo rovistare fra certo rock d’autore nostrano: mi verrebbe da citare gli Scisma – ma credo solo perché influenzato dalla partecipazione di Paolo Benvegnù ad una traccia dell’album – o, più probabilmente, Moltheni/Umberto Maria Giardini, sebbene nella realtà dei fatti nessuno di questi accostamenti renda realmente l’idea di cosa aspettarsi quando si mette su questo cd intitolato “Estraneo”. E forse l’estraneità è proprio la chiave di lettura: sia nell’essere diverso da ogni altro universo musicale conosciuto che nell’addentrarsi in certi territori difficili, esplorati nei testi con una semplicità efficace e disarmante.
“Scegliere” ha un ritmo tribale e ipnotico, su cui la voce di Lorenzo De Masi sentenzia, implacabile: “Credi sia un caso che la classe dirigente sia un po’ in affanno / gli analfabeti un tempo la votavano, ora la fanno”, e ancora “che differenza fa morire in ospedale / o soffocati nella stiva di una nave / come fai a dormire sereno?”.
In “Materia grigia” sembra si possa riprende fiato (“Ma il cielo bisogna respirarlo / non toccarlo con un dito”) ma nel finale il ritmo si fa di nuovo incalzante e magnetico.
Subito dopo si trova qualche coordinata, qualche appiglio più preciso, perché “Sei dicembre” sembra davvero uscita dalla penna di Umberto Maria Giardini, mentre in “L’avresti detto” ho avuto quasi l’impressione di ascoltare i “Management del dolore post-operatorio”, specie nelle inflessioni della voce.
Al di là degli accostamenti più o meno veritieri, però, è certo che “Estraneo” è un album che merita fiducia, che emoziona e scuote, a volte angoscia, spesso fa riflettere. Siamo di fronte a una composizione molto ben riuscita e ad arrangiamenti travolgenti. Si passa dalle atmosfere dark a crescendo vorticosi senza mai annoiarsi.
Ottimo lavoro, quindi, per i quattro piemontesi, con l’auspicio di vederli calcare presto i palchi importanti che meritano.


Manlio Ranieri

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