Spesso, al lume rossastro d’un lampione che il vento
percuote al punto che la fiamma regge a stento,
dentro il vecchio quartiere, labirinto fangoso,
dove il genere umano brulica tempestoso,

va uno straccivendolo, con la testa che dondola:
se ne viene inciampando, come un poeta urtando
contro i muri, incurante di spioni, a lui soggetti.
L’animo suo si effonde in gloriosi progetti.

Detta leggi sublimi, pronuncia giuramenti,
dà giustizia alle vittime, atterra i prepotenti.
E’ sotto il baldacchino del grande firmamento
gusta l’ebbrezza della propria virtù splendente.

Ecco, quelli che soffrono di domestici affanni,
rotti dalla fatica, tormentati dagli anni,
sfiniti e curvi sotto il mucchio di rifiuti
che l’enorme Parigi confusamente sputa,

tornano, e hanno addosso l’odore della botte,
seguiti da compagni, veterani di lotte,
i grandi baffi penduli come vecchie bandiere.
Appaiono stendardi, archi di trionfo, fiori,

per grandiosa magia sorti dinanzi a loro:
nel frastuono e nell’orgia fremente di tamburi,
di squilli, di richiami, nel chiassoso splendore,
regalano la gloria a genti ebbre d’amore.

Così, fulgido Pattolo, il vino in mezzo al coro
dell’Umanità frivola fa trascorrere l’oro,
nella gola dell’uomo le sue avventure canta:
poiché profonde doni, come un vero regnante.

Per spegnere il rancore, cullare l’indolenza,
di quei vecchi che muoiono, maledetti, in silenzio,
Dio, pentito, creò il sonno, le sue fole.
L’Uomo vi aggiunse il vino, sacro figlio del Sole.

 

Charles Baudelaire

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