L’ “aurora dalle dita rosate” avvolge con un panno morbido e fresco le case basse e senza intonaco. Il panettiere percorre le strade in penombra con un’asse di legno lunga e piatta, urla, richiamando le massaie. Gli occhi cerchiati dalla stanchezza, le camiciole leggere arrotolate fin sui gomiti e i capelli raccolti. Il vento autunnale trasporta foglie secche e farina, quella che il legno non riesce a trattenere, mentre le crocchie intrecciate si affrettano a consegnare le pagnotte segnate da un’iniziale. L’odore acre del lievito madre pizzica le narici, diffondendosi nel gruppetto vociante che circonda l’uomo. Michele presta un orecchio alle richieste delle clienti e intanto, bistratta il garzone che con le scarpe rotte trascina il piccolo traino carico di sacchi di farina. Pasquale non va tutti i giorni a scuola, deve aiutare il padre nella consegna del pane. Del resto anche il suo amico Peppino non la frequenta spesso, anche se di tanto in tanto gli piace imparare parole nuove. E quando il maltempo diventa suo complice, in classe dorme sul banco. La guancia attaccata alla superficie consumata, la mascella serrata, la bocca chiusa dalla quale un rivolo di saliva si insinua tra le labbra, i pugnetti stretti, per nascondere le unghie spezzate e i polpastrelli anneriti dalla terra. I figli di impiegati e commercianti, quelli che in casa hanno persino un telefono, lo osservano e sghignazzano richiamando il maestro che con la bacchetta inizia  a pungolarlo impietosamente. Ma che ne vuol sapere Peppino di latino e algebra, le palpebre pesanti lo rendono miope. Non può vedere alcun futuro, il sentiero che si fa largo tra i campi è già segnato e lui può percorrerlo ad occhi chiusi.

Pasquale imbocca il vicolo che costeggia il museo e le vecchie signore lo aspettano velate dalle tende bianche. Il motore dell’ape car verde bottiglia gracchia, la marmitta sputa fuliggine mentre il panettiere prende a torturare il clacson che strombazza. La testa canuta spunta dal finestrino per urlare: “Heeeeei”.

Puntuale. Come tutte le mattine la signora Marietta si affretta a raggiungere il balcone, gli strilla di aspettare poi si lancia a rotta di collo per le scale di pietra. L’androne del vecchio palazzo si riempie dell’eco del suo ciabattare. Il corpo deformato dalle gravidanze fatica a muoversi con agilità e il viso segnato dalla sofferenza più che dalle rughe si illumina, la veste nera ai raggi del sole diventa marrone. Pasquale continua a tormentare il clacson, inchioda all’arrivo di Marietta che lo apostrofa dandogli dello stupido. Tutti i giorni da almeno quindici anni, Pasquale e Marietta si incontrano per la compravendita del pane e questi istanti della loro vita si ripetono uguali.

“Come stai?”

“Tiriamo avanti”

Un mormorio. Poi Pasquale le racconta di un bambino che dormiva tra i banchi di scuola tra le risate di scherno e le bacchettate. Le lacrime di lei, vedova innamorata, invadono gli occhi piatti e rassegnati, nel ricordo del marito Peppino.

La copertina: La canzone dell’amore perduto, Fabrizio De Andrè

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