Spett.le Google,

ogni volta che sul mio smatrphone Android compare la notifica “Opportunità per foto”, che vorrebbe suggerirmi che mi trovo in un posto “fotogenico”, nella mia mente sbocciano due considerazioni. Ci tengo a dirtelo.

La prima, molto semplicemente, è: chi cazzo ti ha dato il permesso di farti i fatti miei, spiare dove mi trovo e ipotizzare che abbia voglia di scattare fotografie? Conosco la risposta: i più esperti di informatica mi diranno che, in qualche sciagurato momento del mio utilizzo del dispositivo, ho cliccato su un “concedi l’autorizzazione” che mi ha incatenato al sistema. Eppure io disattivo GPS, wi-fi, servizi di localizzazione, ho anche richiesto che i miei movimenti non fossero tracciati. Perchè, dunque, dovete sempre sapere il punto in cui bazzico? Non vi sembra sia un tantino invadente?

La seconda, più sottile, è che vorrei far sapere agli sviluppatori del sistema operativo, che non siamo tutti così omologati come vorreste renderci.
Io, le opportunità per foto, me le so trovare in totale autonomia, e spesso non coincidono con quelle – banali – che suggerite voi. Non ci vuole un genio per capire che, se mi trovo al cospetto della Torre di Pisa, ci sia un monumento di rilievo da immortalare. Volete anche suggerirmi come la devo scattare, la foto? Magari inquadrando uno dei miei compagni di viaggio in una posa tale che sembra stia sorreggendo la Torre cadente? Il punto è che io, le opportunità per foto, le trovo anche e soprattutto altrove: le trovo in un capannone abbandonato, in un vicolo di un centro storico degradato, riesco a scorgerle fra i visi degli anziani seduti in una piazza o fra le rughe dei pescatori che rientrano dalla giornata di lavoro. Per me le occasioni più ghiotte sono quegli angoli dimenticati di mondo che brulicano di vita, di sentimento, quelli pregni di significato. E il significato, cari amici di Google, non riuscirete a localizzarlo facilmente con i vostri metodi statistici. I miei amici sono abituati a vedermi inchiodare per inquadrare una pozzanghera, un pezzo di muro, un angolo nascosto che a loro sembra insignificante, finché poi non riescono a scorgere, attraverso il mio scatto, quello che ho intuito io. Mi affascinano e mi terrorizzano le nuove solitudini, gli isolamenti fra i display, le fotocamere e gli auricolari.
Fatevene una ragione.
Per fortuna, non siamo ancora tutti schiavi degli algoritmi.
Qualcuno di noi ha ancora un occhio allenato a scovare il bello in mezzo alle macerie, un orecchio capace di andare alla ricerca della musica che rilascia i giusti ormoni al cervello, una mente sveglia e capace di riconoscere il controsenso in un link condiviso da migliaia di caproni.

Testo e fotografie di Manlio Ranieri (Milano, Aprile 2018)

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