Marta avvertiva spesso l’impulso di piangere, in quel periodo.
Non che ci fosse un motivo particolare, qualcosa di storto o spezzettato: era un bolo di magoni raddensati, che si scioglieva al caldo di quell’estate ma non tanto da colare via.
Ai primi di agosto, i tramonti cominciano ad attardarsi di meno: è quello il momento in cui avverti che l’estate ti sta sfuggendo di mano, se fino a quel momento non le hai riservato la giusta attenzione. Ma del resto il lavoro, gli esami, le pubblicazioni da consegnare, i gradini della carriera da salire senza cedere il passo non potevano essere rimandati.
Adesso, però, c’è quell’altra faccenda di cui occuparsi.
Mentre armeggia con la chiave che serra il lucchetto, aggrappato a una catena lasca che tenta di tenere unite le due ante di quel cancello arrugginito, Marta sente qualcosa di molle, dentro. Sono le venti e cinque minuti, e il sole è appena scomparso dopo essersi lasciato filtrare dalle chiome degli ulivi secolari. Tutto, intorno, è rosa da far paura, anche i muri bianchi della masseria, anche la terra rossa di ferrite – o di ferite? – anche il cielo che non conosce nuvole più o meno dallo stesso tempo in cui lei non conosce un uomo.
Perché quella casa di campagna è diventata sua, dopo generazioni di una stessa famiglia che si erano succedute alla guida della tenuta, lasciandola scivolare da una funzione prettamente agricola e operosa a dimora delle vacanze?
D’accordo, ci aveva trascorso diverse estati fino alla sua adolescenza, insieme a sua madre, suo padre, a zio Arturo – che in realtà non era fratello a nessuno dei suoi genitori, ma lei l’aveva sempre chiamato zio – e a quella sua famiglia allargata che bazzicava la tenuta da giugno a settembre; ma non aveva alcun titolo per assumerne la proprietà, le redini e le incombenze. C’era il tetto da impermeabilizzare, ad esempio, e poi le persiane da ridipingere. Lo zio Arturo, negli ultimi anni, non aveva più le forze di star dietro a quelle piccole manutenzioni.
Appena varcata la soglia dell’ingresso principale, ricorda perfettamente quella sensazione. L’estate, per lei, è quell’odore di legna arsa, polvere e terra umida. L’aveva dimenticato per anni, eppure l’aveva sempre saputo. Di quella fragranza sapeva anche il suo primo amore.
Persino quando era morto lo zio Arturo, non aveva pianto: aveva ricordato la musica che aveva scoperto grazie a lui, le discese in bicicletta verso il mare, col vento nei capelli, le salite dopo il tramonto con la salsedine addosso. Aveva rivissuto persino quell’unica volta che, a stagione ormai abbondantemente archiviata, era tornata in Puglia per partecipare alla raccolta delle olive: la fatica, la patina untuosa, il freddo dell’alba di fine novembre, il caminetto sempre acceso. Ma non aveva pianto. Tutto era stato avvolto in una coperta agrodolce e riposto in una piccola stiva in fondo alla sua anima, in attesa di qualcosa. Non aveva pianto quando mamma Carmen le aveva dato la notizia, non senza un’ombra di stupore negli occhi rugosi: la casa in Puglia era diventata sua. Era giugno, Roma scottava già, stava finendo il semestre ed era uno dei momenti più ingarbugliati dell’anno.
“Ho avuto una vita, altrove”, diceva quella canzone degli Afterhours. Nel 1997, lo zio Arturo l’aveva portata a un loro concerto, in una masseria nei dintorni di Cisternino. C’era polvere ovunque, sollevata da gambe frenetiche, poi Manuel si era levato la maglietta e lei aveva capito di essere donna, per la prima volta.
È in quel momento che Marta ha l’illuminazione: lascia partire “Ritorno a casa”, in cuffia, e finalmente piange. Come ogni volta che ascolta quel pezzo.

Testo e fotografia di Manlio Ranieri

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