La corda intrecciata della tracolla grattava via, piano piano, strati superficiali di pelle. Il borsone era pesante e pendeva stancamente sul suo fianco. Ad ogni passo l’attrito con la tela della sacca faceva si che la gonna si alzasse  di qualche centimetro ma non poteva farci niente, aveva le mani occupate dalla pianta di caffè e dal vassoio di pasticcini secchi. Sotto l’ascella teneva stretto il bouquet di rose bianche  che secondo la tradizione valeva più di una promessa di matrimonio. Aveva congedato i suoi amici di scuola, stampato un bel bacio sulla fronte dello sposo, ex compagno di banco. Aveva rifiutato il passaggio di Rita, la monovolume piena zeppa di marmocchi strillanti la stuzzicava poco, tanto da preferire la lunga camminata verso la stazione.  Non aveva però considerato che era notte fonda. Le luci dei lampioni si riflettevano tremolanti nelle pozze d’acqua, l’aria era umida, l’asfalto venato dall’arcobaleno delle chiazze d’olio lasciate da qualche serbatoio. Le sneakers con il buco sull’alluce al posto dei sandali con il tacco alto e l’abito senza spalline che indossava era stato coperto da una lunga felpa nera con una stampa arancione. “Ghost factory” c’era scritto sopra, la gambetta della ipsilon disegnava i contorni di una fabbrica dalla lunga ciminiera, uno dopo l’altro ne uscivano dei fantasmi.

Riaccese il cellulare. 8 sms, svariati messaggi su 3 chat di Whatsapp e 54 notifiche su Facebook. Il Blackberry prese a vibrare sonoramente.

“Pronto?!”

“Dalila ma perchè spegni il cellulare?”

“Eh…perchè era quasi scarico”. La voce sembrava polvere per la sabbiatura, graffiava contro la trachea: “Adesso sto andando in stazione, magari ci sentiamo quando sono sul treno”.

“E’ luna e mezzo, capisco che tu non sia chissà quale compagnia ma almeno un passaggio…”

“Mà c’ho l’affanno, se ci sentiamo dopo è meglio”.

Riattaccò. In effetti stava tentando la scalata di un ponte che portava alla stazione centrale, gli scalini erano pochi ma molto alti, passando da lì avrebbe accorciato il percorso di un bel pò. Un tipo magro e vestito di bianco le si accostò, le camminava accanto senza parlare ma era talmente vicino da poterne sentire il profumo. I capelli erano rasati, coperti da un panama di paglia logorata, ai piedi calzava ciabatte di pelle marrone. Era estremamente magro, la camicia arrotolata sui polsi lasciava intravedere vene gonfie e verdi. Dalila non si lasciò intimidire, aveva stretto nel palmo il suo Blackberry, il pollice sul tasto uno con la chiamata d’emergenza impostata.

“Mi daresti la tua pianta di caffè?”

Una mistura di imbarazzo e sorpresa dipinse di rosso le guance della ragazza che guardandolo in tralice gli spiegò che non poteva. Che era andata al matrimonio del suo migliore amico e quella era la bomboniera, che però avrebbe potuto regalargli i pasticcini alle mandorle che odiano tutti e che, presumeva, odiasse anche lui. Che il suo amico si era sposato così, di punto in bianco, la sua ragazza, no, moglie oramai, le stava sulle balle. Che lei non ci pensava nemmeno a sposarsi che non si sentiva pronta perchè a trent’anni uno non può essere nel vicolo cieco del matrimonio, nemmeno se in uno slancio di banalità partecipa al lancio del bouquet. Che doveva finire di studiare, trovare un lavoro ben pagato e capire soprattutto quale fosse il suo posto nel mondo.

Il tizio con il panama le sfiorò l’avambraccio contratto nello sforzo di reggere il vaso, Dalila si fermò e si rese conto di aver straparlato con uno che non aveva mai visto prima. Erano soli, se avesse voluto avrebbe potuto stuprarla, prenderla a pugni e poi buttarla di sotto, sui binari che attraversavano gli archi del ponte. Come sempre troppo giallo e troppo sangue nella sua testolina diffidente e sospettosa.

“Allora me la daresti la tua pianta di caffè?”

“Ehm no, non è che non voglia – si affrettò a dire, la mano da scheletro era stretta adesso, mentre il suo pollice scattava sul tasto – è che non posso proprio è mia, cioè, non posso”.

Quando Dalila si risvegliò era per terra, dalla fronte le colava del sangue verso l’occhio. Poco in realtà, si trattava di una piccola escoriazione in direzione del sopracciglio sinistro. Aveva addosso una coperta. Una banda grigia catarifrangente si illuminò contro un faro azzurrino, come un pianeta brillante con attorno minuscoli satelliti di polvere. Nell’alone, il profilo di un mezzo busto chino su di lei, due occhi azzurri che la esaminavano, una voce lontana che si faceva sempre più vicina. Fu caricata su una barella, sentiva i paramedici dare disposizioni al pronto soccorso del policlinico, stavano per arrivare. Dalla lettiga che intanto scivolava all’interno dell’ambulanza, la vide. Una figura bianca stesa per terra. Una densa colata di sciroppo di mirtilli avanzava sull’asfalto formando un’aureola scura. I cocci bianchi erano sparpagliati tutt’intorno alle radici nude, lunghi dread fatti di fibre e terra, le drupe rosse come gocce di sangue. Il bouquet era accanto a lei, intatto.

La copertina: Psycho Killer, Talking Heads


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