Io non sono uno di quegli individui nostalgici “si stava meglio quando si stava peggio” e, dunque, questo post non vuole avere quel tipo d’inflessione.
Ma ce l’ha, me ne scuso, temo sia inevitabile: ho pensato in tutti i modi a come esprimere questo concetto senza cadere nella trappola della nostalgia per i tempi che furono, non me n’è venuto in mente nessuno.
Tutto è nato mercoledì sera: Ippodromo del Visarno, Firenze. Di scena ci sono i Radiohead, una delle band più influenti degli ultimi trent’anni, forse l’unica che abbia davvero inventato qualcosa in questi tempi sterili, nell’ambito del rock che ormai, proprio grazie a – o per colpa di – loro non si può più chiamare tale.
L’atmosfera ha del magico, bisogna dirlo, ci sono circa cinquantamila persone, festose – per quanto lo possano essere i fans dei Radiohead – e disciplinate; l’afflusso, i controlli, gli accessi, tutto è andato benissimo, lo show è iniziato puntuale con una “Daydreaming” che, da sola, poteva valere già l’intera serata: specie con quelle luci che danzavano a trasformare il palco in un cielo stellato.
Ma è stato verso la fine, durante la bellissima atmosfera di “Street spirit” che chiudeva il secondo bis, che qualche sporadico nostalgico – pochi, purtroppo, ché quando le mode passano lo fanno anche fra le persone alle quali delle mode non gliene è mai fregato niente – ha pensato di sollevare gli accendini al cielo, illuminati.
Quanto tempo, quanti anni, quanti concerti erano che non vedevo le fiammelle invadere il cielo saturo di musica di un concerto rock? La risposta è semplice, la sappiamo tutti anche se preferiamo non dircela: da quando le mani dei rockers sono troppo – davvero troppo – impegnate a girare video di qualità pessima con i telefonini (qualche sporadica volta lo faccio anch’io, lo ammetto). Da quando la nostra vita è diventata testimonianza in tempo reale del “io c’ero”, condivisione di qualsiasi contenuto, anche se scadente.
E allora ho un invito da fare, che cadrà nel vuoto, con il quale sarete d’accordo ma senza metterlo in pratica: non dico di abbandonare la tecnologia e la bulimia social – lungi da me essere così testardamente fuori tempo – ma cercate di riflettere di più su ciò che fate, su come impiegate il vostro tempo, le vostre mani, i vostri soldi; su quello che condividete, su quanto sia deleterio abbattere la nobiltà del mezzo fotografico per rappresentare quadretti di una banalità esasperante. Allenate le vostre menti impigrite alla ricerca di qualcosa di bello e originale, anzi, neanche: di qualcosa che sia vostro, lo sia realmente, qualcosa che non abbiate già visto e imitato a migliaia di altre persone.
Usate la mente.
Usate gli accendini nei concerti.
Era il luglio del 1993 e avevo l’onore di essere fra il pubblico di uno dei live più indimenticabili della mia vita: gli U2, a Napoli, con i Velvet Underground – sì, ho detto i Velvet underground – a fargli da spalla. Ero sugli spalti quando, durante “Love is blindness”, mentre i maxi schermi rimandavano immagini di cieli stellati e costellazioni e The Edge proiettava nell’aria sciami di brividi di chitarra, Bono prese in mano un accendino e iniziò a dargli fuoco a tempo di musica. Il momento in cui tutto lo stadio San Paolo lo imitò, beh…
Che ve lo dico a fare.

(P.S.: non esistono testimonianze video di quel concerto e di quel momento. Youtube ignora quasi totalmente ciò che è accaduto prima di youtube. Avrei voluto farvelo vedere, magari incorporarlo in questo stesso post, eppure sapete che vi dico? Meglio così. Quel ricordo rimarrà indelebile per sempre nella mia mente, e in quella degli altri ottantamila fortunati che vi hanno assistito. Ci pensate? Siamo dei privilegiati. Ognuno può esserlo se sa fare tesoro, dentro di se, dell’unicità di certi momenti, se è capace di non appiattirli e non banalizzarli)

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Gli accendini nei concerti di Manlio Ranieri è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
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