Ci stiamo perdendo una generazione intera, nella scia maleodorante di pessima musica e di consuetudini aberranti.
Questo è il ritornello che – più di ogni altro – rimbalza in rete, in televisione e sulla stampa, fra i commenti degli opinionisti di professione, di quelli promossi a tale ruolo da cinque minuti di dubbia notorietà e persino di tutti coloro che, pur non investiti di alcun ruolo pubblico, si sentono in dovere di dire la loro solo perché internet e i social network lo consentono. Un po’ come me, insomma.
Ebbene: sarà vero che stiamo assistendo a un degrado che non ha precedenti nella storia? Forse. Ammettendo che lo sia, avremmo due possibili strategie da seguire: puntare il dito, lamentandoci dell’orrore a cui assistiamo dal nostro insignificante pulpito privato, offerto dalla bacheca di Facebook, oppure inventarci qualcosa per invertire la tendenza. Sarà forse comunque troppo poco, ma meglio che sputare controvento.
A me l’unico rimedio che viene in mente contro lo squallore è la bellezza.
Dovremmo invadere il mondo intorno a noi di bellezza, di arte, di buona musica. E questo, badate bene, non significa hackerare tutti i profili Spotify che hanno riprodotto almeno una decina di canzoni “Trap” negli ultimi giorni e sostituire nelle loro playlist uno Sfera Ebbasta con un Pearl jam, un Achille Lauro con un Pink floyd, un Emis Killa con un De Andrè.
L’imposizione non funziona, la violenza genera reazioni violente, la dittatura della cultura gonfia le vele alla mediocrità.
Nel weekend, dopo aver sentito della tragedia di Ancona, dopo aver riflettuto – in silenzio – sull’accaduto, sono andato a vedere “Bohemian rhapsody“.
Ora: io non sono un grandissimo estimatore dei Queen e, peraltro, devo aggiungere che il film mi ha lasciato perplesso in alcuni punti. Tuttavia penso sia innegabile che gli ultimi quaranta minuti siano un crescendo di emozioni inarrestabile a cui è impossibile rimanere indifferenti. Così come penso sia innegabile che i Queen siano stati una grande band: inimitabile, storica e con un bagaglio emotivo e tecnico invidiabile.
E, soprattutto, i Queen cercavano il pubblico, amavano compiacerlo, pur senza svilire le loro qualità.
Peraltro la pellicola lascia intendere piuttosto bene quali siano le dinamiche che muovono una grande band, il cemento che la rende storica, quell’alchimia fatta di sudore e litigi, confronti accesi e amicizia indistruttibile; insomma: insegna, almeno un po’, come si fa musica di un certo livello.
Vi starete domandando quale sia il nesso fra il degrado della musica attuale e il film “Bohemian rhapsody”.
Ecco: io penso che l’errore più grande che una generazione può fare nei confronti di un’altra, o una fazione contro quella avversaria, è quello di ergersi su un piedistallo e crogiolarsi nella propria – vera o presunta – superiorità culturale.
Le emozioni parlano una lingua universale. La storia dei Queen andrebbe fatta vedere a chi naviga in quest’universo di musica gravida di elettronica e povera di contenuti, proprio perché le quattro Regine hanno saputo parlare alle masse, hanno saputo emozionare anche chi di musica non capiva un cazzo. Sì, perché loro, quando componevano, strizzavano l’occhio pure a questi ultimi.
Nel mondo della cultura c’è un universo infinito di bellezza.
Se sprechiamo il nostro tempo a inveire contro la superficialità della società attuale avremo ottenuto soltanto di imbellettarci un po’ agli occhi di chi è già d’accordo con noi.
Se, invece, ci scervelliamo per trovare il modo di rendere la cultura comprensibile a tutti, avremo la possibilità di elevare di un misero gradino il livello medio. E lì, forse, riusciremo a trovare anche un minuscolo spazio in più per quell’arte dura e pura che piace tanto a noi.
Ho sentito fior di commenti sarcastici sulla mostra “Van Gogh experience” che inaugurerà il rinnovato Teatro Margherita, a Bari. Sprecare tanti soldi per proiettare delle diapositive, hanno detto. Non sarebbe stata più interessante una mostra vera?
Probabilmente sì.
Ma, senza dubbio, un evento così rinomato – commerciale? – attirerà molte più persone, anche col palato meno fine, vuoi per la curiosità di rivedere il teatro aperto, vuoi perché il nome del pittore olandese non è sconosciuto a nessuno.
Seminare bellezza per raccogliere meraviglia.

Manlio Ranieri

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