E’ il 27 novembre di un modernissimo 2017. In questa giornata grigia ma calda, spazzata da un vento africano, ricordo i tempi in cui – ragazzino ancora ignaro delle mie stesse passioni – pur di leggere qualcosa assorbivo anche le scritte sui muri. Spesso non le capivo, come ad esempio succedeva per le fantomatiche “Dio c’è” che, secondo alcuni, indicavano i luoghi di spaccio.
Fra le centinaia di incisioni rupestri a vernice spray, negli anni ’80, una catturava la mia attenzione di ragazzino a metà fra l’infanzia e l’adolescenza: “Benny vive”.
Chi fosse Benny, e perché qualcuno sentisse il bisogno di sottolineare il suo essere in vita, l’ho capito solo diversi anni più tardi, con il sopraggiungere della coscienza politica.
Benny – al secolo Benedetto Petrone – era un ragazzo barese, operaio e militante comunista, poliomelitico, dunque invalido, barbaramente assassinato a coltellate da antagonisti politici: biechi fascisti, insomma.
Nella tragica brutalità di questa storia esiste un risvolto, spesso trascurato, che ha una valenza piuttosto importante: negli anni ’70, a Bari, l’appartenenza politica era così sentita da portare anche a scontri in campo aperto. E negli anni ’80, comunque, lo era ancora abbastanza da spingere i giovani a riempire i muri della città di elegie funebri per il ragazzo assassinato vigliaccamente.
Si scendeva in strada, per professare la propria ideologia e per sostenere le battaglie ad essa legate.
Era il 1977.
Non c’erano tante televisioni attraverso cui ascoltare le notizie, tanto meno smartphone attraverso cui organizzarsi in gruppi Whatsapp. Non c’era Facebook, alle cui orecchie sorde urlare la propria indignazione fiacca e sterile per questioni delle quali il giorno dopo ci si è già scordati, per pensare ad altro, per seguire la bulimia di flussi d’informazione alla quale siamo sottoposti.
In quegli anni, il vigliacco che voleva urlare al mondo il proprio credo senza esporsi al pericolo di essere sprangato – scagliare il sasso e nascondere la mano – almeno si prendeva la briga di imbrattare un muro, di notte, per strada, con l’epitaffio “Benny vive”.
Commemorare Benedetto Petrone, oggi, ha ancora un senso? Me lo chiedevo, stamattina, passando davanti a un teatro Petruzzelli surreale, blindato di polizia, mentre dall’altro lato della strada un manipolo di una ventina di persone manifestava dietro bandiere nostalgiche e stantie. La ricorrenza, quest’anno, cade nel weekend del Black friday. Ecco: la risposta è lì. E’ così che il capitalismo ha vinto la sua guerra: concedendoci qualche briciola di quello per cui Benny lottava, fino a chiedercela indietro, a rate sanguinose, per tenerci legati mani e piedi attraverso braccialetti elettronici non meno invadenti di quelli dei detenuti agli arresti domiciliari.
Abbiamo scelto noi stessi, di lasciarci sconfiggere, perché era più comodo così.
Oggi si pubblicizza uno smartphone con l’intelligenza artificiale, in grado di plasmare il suo funzionamento in base alle nostre abitudini di vita, che costa quanto uno stipendio da operaio.
Benny l’abbiamo ucciso un po’ anche noi, anch’io.
Ecco perché non ha senso commemorarlo senza prima farci qualche domanda.

Manlio Ranieri

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Warren Wong

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