Il pomeriggio decideva in maniera netta chi tenere in strada e chi invece tenere tra le mura spesse e confortevoli di una vita convincente e agiata, un freddo invernale improvviso puniva quell’Aprile insapore che timidamente cercava di imitare l’estate che sarebbe venuta di lì a poco arrivata portando con sé nessuna novità, se non quella di aver acuito i dubbi e le incertezze. C’era chi in strada teneva a guinzaglio uno strano essere dal pelo folto, che si chiamava cane e tutti avrebbero pensato lo stesso, se al contrario il quadrupede fosse rimasto a casa a ricambiare la natura dei suoi frutti. Nella sua stanza che nulla aveva di fresco e profumato, il cantastorie senza speranza alcuna riguardo agli eventi futuri, ripercorreva i suoi pregi e difetti aspettandosi che qualcuno la fuori avrebbe detto il contrario, la sera quando avrebbe fatto la sua quotidiana ronda notturna. Per lui comunicare era l’essenziale, nonostante avesse letto in quel autore di Praga che uno dei mezzi maggiori di formazione del male era il dialogo, al che era sua abitudine bruciare quelle carte morte al suo fianco con un salto verticale per afferrare un entusiasmo costoso e autore di lancinanti sensi di colpa. Se tutti vivevano abitualmente nella speranza che le loro penne e le loro matite avrebbero infoltito le loro tasche, lui, il cantastorie spezzava direttamente le vertebre dei suoi pennelli e ignorava quasi del tutto che il quadro fosse mai esistito o che avrebbe dovuto per forza di cose esistere. Sul piano obliquo della sua ansietà e del suo umore quasi sempre sotterraneo, viveva di costanti contrasti tra ciò che i nervi centrali, come vollero gli antichi aristotelici, sede del cuore, gli sussurravano continuamente all’orecchio e i comandamenti necessari di chi gli era intorno, era una storia che andava avanti oramai da anni, i sensi di colpa e le delusioni oramai erano un accessorio invariato del suo vestiario. Le sue vesti erano di uno cinabrino tendente alle gradazioni più scure, corrispondenza esatta con il suo umore tipicamente invernale e bigio, in tutto la sua figura presentava più parti tra loro differenti, ogni pezzo del complesso era studiato con attenzione e acume, scelse che la sua mente doveva presentare soltanto determinate frequenze, non andare oltre le regole imposte dal suo buon senso sicuro e fermo; il rosso cinabro insieme alle corse parallele dei suoi pantaloni in velluto marrone completava definitivamente la sua persona, era quello e nulla di altro avrebbe potuto diventare, se anche passando per l’emporio della sua piccola città di provincia avesse visto una scelta diversa nell’abito, avrebbe sicuramente voltato lo sguardo e recitato una segreta litania tra sé con l’obiettivo di sedare ogni possibile rivolta contro la sua morale ferrea e inalterabile. Molti in paese ridevano del suo passo regolare come un commilitone della legione straniera, era sulla bocca di tutti, nel bene e nel male, quasi sempre nel male, negli occhi dei passanti sui boulevards artificiali della piazza del borgo, il suo passo e i suoi costumi erano un modo per confermare la propria giustezza morale e i propri principi; nonostante fosse di giovane età, le giovani lo consideravano come un vecchiaccio impolverato e lontano dal mondo reale, ridevano sopratutto di quel suo tentativo, spesso fallimentare, di conservare un andamento rispettabile in contrasto con ciò che era realmente, i cantastorie o gli imbianchini erano visti come fratelli di letto. Il suo andamento da soldato, unito a quei cappottacci verdone scuro, erano soprattutto una maniera per vincere quella serie di novità incessanti che lo spirito mentale, in quella camera di udienza degli spiriti animali, come aveva letto in quel filosofo del seicento, poneva alla sua coscienza continuamente, non era possibile sfuggire a questa continua messa in scena di spettacolini barocchi riguardanti possibilità di ogni sua singola azione rivolta al futuro “Come sarebbe se io avessi questa cosa a mia disposizione nel fare quell’altra cosa?”. Non c’era via di scampo da questo continuo palleggiare tra due quei due rami distinti del suo pensiero, costantemente assorto, alla ricerca di un tempo perduto oppure di una muta compagnia di un amico. Eppure c’erano state estati passate in cui i fiori della sua immaginazione erano sbocciati spontaneamente, come il giglio selvatico, e niente aveva posto un freno al suo continuo riflettere e fantasticare. In quei tempi passati, fatti di lunghe corse a piedi nudi, tra il cemento di una provincia spoglia e volgare, non ci sarebbe stato bisogno di vestirsi come un anziano, ché la gioventù è soltanto una blusa aperta, a cuore scalzo, niente vergogna, soltanto anima in corsa tra gli sguardi attenti della gente ma indifferenti alla meglio gioventù. Cosa rimaneva tra i polsi unti di una camicia senile di quella spensieratezza giovanile? Davvero a lui in quei tempi d’argento mai era venuto in mente di mettersi quel costume? Dopo i pranzi direttamente vagante in strada, il caldo pomeriggio dell’estate non intaccava minimamente le sue idee veloci. Aveva scelto, quando era ormai diventato un cantastorie, di indossare solamente quei colori autunnali, per fermare il tempo malvagio e dargli una sistemata una volta per sempre. In gioventù, quando tra i banchi di scuola, brillava di un entusiasmo raro, il tempo non era così malvagio e ostile, dentro le stanze bonarie della sua vita, non c’era bisogno di fermare il tempo con un colpo di frusta, per avvisarlo a non andare oltre. Il corpo e le sue idee veloci di pari passo vivevano negli esercizi fisici estenuanti, nella corsa alla corriera, nelle fantasticherie amorose. Dopo tutti quegli anni decise di diventare un cantastorie, buttando via i costumi carnevaleschi della gioventù e dedicandosi alla cura del prossimo, inventando storie. La sua giornata era divenuta semplice, regolare, senza particolari colpi di coda. Al mattino, indossando subito come una lince, la sua armatura da condottiero, assaporava il nero di una bevanda eccitante, poi controllando che ogni cosa fosse nel suo posto adulto, allora dava vita ai suoi personaggi. Mentre iniziava così “Le finestre serrate del suo sconforto…” subito un canestro da parte del suo senso di colpa “Chi sono io?” diceva a se stesso “Ho davvero il diritto di essere così come sono?”. A queste frasi seguiva poi l’assopimento nelle suo storie incolore e senza entusiasmo alcuno, la luce era spenta, così come quell’indifferenza agli occhi altrui che caratterizzò la sua infanzia. Non era certamente visto di buon occhio da nessuno, nemmeno da chi avrebbe dovuto indicargli la sua vera strada. Leggendo ancora quell’autore di Praga, capì che l’ipocrisia era la moneta necessaria per ogni narratore, ma questo non bastava per redimerlo dalla sua colpa, come del resto quell’autore di Praga. Incapace di affrontare gli eterni salti da una regione all’altra del suo sconforto, l’inverno rubò prima del tempo il pane a quell’Aprile insapore e tisico. Il gelo della ragione si impadronì della sua dimora, la sua giornata diventò eterna.

Un racconto breve di Giovanni Sacchitelli

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