La chiesa brucia, la malattia imbecille
La chiesa brucia.
La storia si sgretola.
L’arte al rogo.
Maestranze in divenire, da secoli addietro, muoiono lente insieme al genio degli artisti, che era rimasto contemplabile e intatto nei secoli.
I romantici di tutto il mondo versano lacrime, Esmeralda sembra che lanci dalle pagine di ogni copia di quel libro sparso nel mondo un grido di sofferenza per la propria madre ferita. I francesi sono sgomenti.
E i sapiens che fanno?
Vediamo.
La lasciva necessità di scrivere qualcosa sull’argomento prende il posto del dispiacere bruciante che pur dovrebbe abitare in un angolo di chi l’arte l’ha guardata almeno di striscio. Via, siamo italiani, ci giriamo a destra e abbiamo un monumento, ci giriamo a sinistra e ci guarda un dipinto del seicento, pensiamo di essere in auto e invece siamo sulla via Appia. E dai, c’è, quella briciola di dispiacere. Ci deve essere. Per forza.
Ma aspe, aspe.
Eravamo rimasti a “scrivere qualcosa”, all’inizio di due frasi fa.
Scrivere qualcosa dove?
Sulla propria bacheca personale, su un social network.
Scrivere qualcosa cosa?
La foto dell’ultima vacanza o di quella fatta un quarto di secolo fa, per dire “ah ah, sfigatelli, io ce l’ho fatta a farmi un selfi (si, perché quelli lo scrivono così) quando la cattedrale stava ancora in piedi” e accompagnarla da un testo che è l’apoteosi di tutte le frasi senza senso nella Grande Storia delle Frasi Senza Senso.
E questa era la fase uno.
Perché c’è la fase due.
Succede che magnati da tutto il mondo e comuni cittadini annuncino l’invio di denaro per ricostruire la suddetta cattedrale. Un evento a dir poco commovente, che non fa niente che Macron ci sta antipatico e come è potuto succedere questo maledetto errore di distrazione che ha scatenato le fiamme. Va ricostruita. Si può fare. Lo faremo.
Ed ecco che il sapiens tira fuori dal suo logoro cappello certe frasi da repertorio, quelle che tiene nella scatoletta delle cose ammuffite che spaccia a se stesso per mentine con cui pensa di tenere l’alito profumato. Quelle con cui si erge a exemplum degli Esseri Migliori, contro i comuni mortali seguaci del vil denaro mentre “c’è gente che muore di fame.”
Incredibile come tutto diventi un calderone di non sentimento e parole vuote. Di eventi che tra loro non sono in connessione, in realtà (gli sbarchi e l’incendio, la guerra in Siria e chi invia denaro per ricostruire una chiesa, una tragedia nazionale e il mio selfie necessarissimo da condividere), ma che grazie alle parole sbagliate diventano un minestrone velenoso di cui in molti vanno a cibarsi.
E’ incredibile come tutti si tengano in tasca un contrario sempre pronto per lanciare fango, anzi, acido, su qualsiasi situazione, rendendola in tal modo banale per il solo fatto di “essere intervenuti sull’argomento”.
In quest’epoca sembra che sia il destino di ogni tragedia.
Di non valere più nulla.
Ma ogni tragedia merita ossequio.
Desdemona è morta, nelle sembianze di un’altra donna uccisa per gelosia. Altri settanta migranti sono annegati al largo. Notre Dame brucia.
Zitti. Silenzio. C’è la Morte.
La comunicazione in questo tempo sembra vivere il grand malaise.
Una profonda malattia imbecille.
Le parole che sanno creare e fornire un appiglio nel nonsenso risultano troppo spesso imbruttite e rese vane da tutte le parole non necessarie.
Ma che succede al nostro modo di comunicare?
E’ diventato una pasticca che deve entrare dentro un post?
Dov’è finita l’intimità con noi stessi e con certi dolori?
Dov’è finita la grandezza profonda che porta con sé ogni dolore, e dov’è finito il rispetto che ogni dolore merita?
E’ un gesto ardito e coraggioso quello di chiederci quante delle nostre parole siano realmente necessarie.
L’incendio del 14 aprile ci insegni il silenzio, maledizione.
Ci scenda una lacrima benedetta davanti alla consapevolezza di quanto l’arte sia ancora indifesa. E il suo valore ancora presunto. Faceva male guardare quelle fiamme? Bene! E’ quello il nostro angolo dove brucia la bellezza del mondo che sappiamo vedere e sentire, è il punto in cui possiamo farci cambiare l’anima da tutte le opere d’arte che abbiamo ancora intorno, prima che brucino, prima che spariscano tutti gli eroici folli che le tutelano, prima che ci disinsegnino a guardarle.
L’arte estende la nostra capacità di sentire. Che estenda anche la nostra padronanza del silenzio e della contemplazione, nelle nostre relazioni e davanti alla Tragedia ogni volta che arriva.
Photo by Denis Oliveira