Non era mai stato bravo a trattenere le cose. Né a lasciarle andare. Le tasche piene di soffitte, cantine e ripostigli.

L’elefante azzurro dentro era ostinato. Provava a stordirlo col gin tonic e le cartine.

Ma restava in piedi, ingombrante e muto come un vecchio armadio chiuso a chiave.

Non si ricordava quando era nato e perché avesse assunto questa forma. Forse quel documentario, da bambino. O i traumi del circo e degli zoo.

Il suo personalissimo Gulliver sempre fuori posto.

Abnorme e ingiusto. Solo.

Tutto quello che poteva dargli: noccioline. Talvolta ne trovava per strada, sotto il letto, tra le pagine dei libri. Ma placare la fame dell’elefante azzurro era impossibile.

Gli sembrava di annegare nell’acido ad ogni barrito del suo mostro.

Ci sono stati momenti in cui ha pascolato sereno, c’ è stata qualche Africa in cui si era sentito a casa. C’era stato un posto in cui l’elefante azzurro poteva riposare.

Però è stato invaso da ospiti inattesi. Distrutto. Quante volte è successo? Poche, ma abbastanza per tenerlo in vita e costringerlo a vagare.

La gabbia toracica è troppo stretta, il deserto troppo grande.

Che creatura maldestra: ha rotto la bussola e non sa più dov’è il sud. Non sa più niente. La memoria lo trattiene al passato, a quando, per un brevissimo istante, si è sollevato da terra, in un tramonto rosso d’Africa.

Ha volato con lei che migrava chissà dove e non è più tornata.

Ma è sempre stato troppo pesante per volare.

Era una cicogna o un fenicottero? Forse una poiana delle steppe.

Qualcuna di quelle creature di passaggio che sanno sparire come i miraggi nel deserto.

L’uomo con l’elefante azzurro ha sempre avuto troppa fantasia. Troppe cose da conservare e da buttare via.

Lo incontri al bar o lungo i sentieri di montagna, con una bella postura e l’occhio attento. Un bel vestito, magari. Vecchio e piacente.

È come il sindaco di un’isola che non c’è.

Non mostra mai l’elefante azzurro, anche se è proprio lì, sotto la giacca blu, negli occhi dei bottoni, lungo le ciglia, nella narice sinistra, sotto la coclea.

È ferito, adesso. È ferito spesso.

Ci vorrebbero più noccioline, ci vorrebbe l’Africa.

Quella vera, quella in cui i migratori ritornano sempre, quella in cui si combatte e si spera e si fa la danza della pioggia.

Quella in cui non essere più soli.

Eppure se gli si parasse davanti, questa Africa, forse non la riconoscerebbe. Come quegli animali in cattività che restano immobili anche se la gabbia è aperta.

Tale è l’assuefazione all’angustia, la percentuale di niente, l’abitudine allo sfacelo e alle magre illusioni.

L’uomo vive e ringrazia il mondo intorno che ospita i suoi passi.

L’uomo non vuole essere ingrato e riconosce ogni bellezza vissuta, la onora e sorride alle finestre.

Il suo cuore è un elefante azzurro, non l’ha mai scelto, ma lo riconosce.

Troverà un posto – si ripete – in cui riposare o morire.

Un posto che non lo illuda, non lo ferisca, non lo prenda in giro.

Che lo faccia vivere sereno o che lo uccida

questo suo cuore sempre incompreso, sempre fuori contesto.

Sempre colpevole.

Delia Cardinale

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