Scorreva lungo biondi e sciatti prati, di vuoti a perdere e polistirolo. Pensieri zavorra sottobraccio, Tom York nelle orecchie e qualche stormo di pesci volanti affaccendati. Tra il lobo frontale e un firmamento sporco, la lunga scia di no: una specie di coda opaca per brutti pavoni scappati di casa. Nessuna ruota d’occhi che irretisce, nessuna meraviglia, solo un lungo treno grigio a sapone scadente. Bolle effimere dagli alveoli, zitte come a messa o negli angoli bui di provincia.

E qualcuno compra delle forbici, mentre lei sulla carta disegna ghirlande. Il macero nello stomaco: tutte le parole d’amore che si sciolgono inutili. Demoliti i santuari uno ad uno, scordate tutte le dediche allineate come chitarre morte. Ed ogni volta le sembra un nuovissimo noto sconosciuto. Come quei biscotti d’avanguardia senza olio di palma, uguali e diversi, dalla scoperta di una qualche offesa Indonesia.

È tutto giustissimo nel diagramma di flusso. Ogni taglio chirurgico sui suoi fogli che non saranno mai barche e aerei o cappelli buffi. E la rupe di una canzone triste si specchia nei suoi occhi randagi. Il passato sotto le unghie, il presente alle ciglia. Un orizzonte da raggiungere scegliendo un sentiero a misura di spalle. Non c’è spazio per un accanto. Fila indiana di acido formico, indifferente e tortuosa. E questa sua attesa d’improvvisi, a sinistra il panificio delle medie con i tavolini, una gazza ladra sui fili elettrici.

La memoria non si schioda, accade.

Tutti i progetti di lego e nastro adesivo, l’ombra lunga di nuove città che si somigliano, le briciole di Pollicino mangiate dai ratti. Una rassegnazione discreta, questa volta. Lo spazio-tempo impone grafici e passeggiate, attese e dispense. Cosa poteva fare non essendo Dio? Coltivando un giardino pensile tra gli omeri senza poterselo strappare di dosso. Il peso di passioni e scelte ha il mistero e la forza dei gravitoni. L’indipendenza intrasistemica, l’eterno abbandono, lo spettacolo del tergo che accende una miccia. Archimede e Murphy in una perenne morra cinese che non si vince.

L’amore, quello del silenzio, della prossemica, delle risate nel bel mezzo dell’alterco, della scelta del dentifricio. Quello che si aspetta e ti aspetta. No. I percentili non esistono, solo la solita pressante sensazione d’impossibile. Ennesimo sacrificio di spugne fradicie, argini rotti, annegamento.

Legge distrattamente i libri, con le farfalle in testa e la valigia sempre al muro.

Che poi si può vivere senza- si ripete, accarezzando il gatto. Nove anni e poteva andare peggio. Le sue cianfrusaglie sacre hanno smesso di brillare, sepolte in qualche lontanissimo avamposto. Eppure stazioni brulicanti, strade mai percorse e nuovi sguardi: cartoline dal futuro anteriore.

Tremando incerta sul ciglio del tuffo ennesimo, spera di non essere dimenticata. Avrà pure lasciato qualcosa. Il tempo del perdonare e perdonarsi, la legge di bilancio, i biglietti scaduti: è stata lì, negli anni. Accanto a qualcuno, a tempo determinato. A chiamata, a progetto e anche in nero. Nei viali, chiusa a chiave, esaltata e nascosta. Pensava, all’epoca, che qualcun altro avrebbe potuto deciderle un ruolo. Ma strabordava o cadeva nel vuoto. La rabbia colava dal soffitto: tempi e spazi angusti, sconfinati, trappole o deserti.

Difficile- pensava – da sempre. Si riempiva di sé con la certezza di sapersi migliore. Più grande e più piccola in relazione al suo personalissimo sistema di misure. Secoli passati a mettersi in discussione e l’estasi del va bene così. Con tutti i vuoti e gli ingombri, verbi e aggettivi, sogni e visioni. Il senso pratico s’impara vivendo, il resto ce l’aveva in tasca.

Doveva dirsi tutto questo, vestirsi d’acciaio, indovinare la bellezza, continuare a camminare. Coltivare il suo segreto: certe volte si è completamente disarmati e bisogna sapere, sapere esattamente, a chi confessarlo e a chi tenerlo nascosto.

Delia Cardinale

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