Mi cimento nella solita carrellata non assoluta e non esaustiva sugli album che più mi hanno emozionato e quelli che più mi hanno deluso nell’anno che volge al termine.

Quello che ne verrà fuori non è un giudizio assoluto – so già che alcune delle scelte troveranno in disaccordo molte persone – quanto piuttosto uno scambio d’opinioni.

TOP:

1. Placebo – MTV Unplugged: non è da me indicare come album “dell’anno” un live senza inediti, ma devo ammettere che questa registrazione mi ha particolarmente colpito: gli arrangiamenti sono tutti studiati con molta cura, adattati all’ambiente e non, piuttosto, semplicemente suonati “più soft”. Il pianoforte lega troppo bene con la voce – inconfondibile – di Brian Molko: “Meds” “Loud like love” e “Hold on to me” hanno un sound completamente diverso rispetto alla versione originale, ma non per questo sono meno riuscite. Da ascoltare, da vedere.

2. Muse – Drones: qualcuno ha definito lo stile di quest’album “Tamarrock” e forse, in parte, ha anche ragione. si tratta di un rock duro ma melodico, che a tratti (specie nei primi tre pezzi) suona parecchio come già sentito. Tuttavia non ci si può dimenticare che nessuno come i Muse sa cambiare radicalmente pelle da un album all’altro pur rimanendo fedeli a se stessi, e che hanno una perizia strumentale invidiabile. Sono capaci di suonare qualsiasi cosa e di farlo bene. Qualche anno fa lanciavano un singolone melodico e del tutto elettronico come “Madness”, nel 2015 tornano sulle scene con un pezzo rock fatto di riff granitici e citazioni a non finire. Nella parte centrale dell’album ci sono le canzoni meno conosciute ma, forse, anche le migliori.

3. Management del dolore post operatorio – I love you: veniamo in Italia. Originali, scanzonati, polemici e un po’ folli: questi sono i “Management del dolore post operatorio”. Un rock che non suona mai come già sentito, a volte dissonante, a volte melodico. Testi ironici, mai politically correct. Da ascoltare.

4. Editors – In dream: Gli Editors non hanno mai inventato niente, sia ben chiaro. Se con “The weight of your love” raccoglievano ispirazione a man bassa dalle parti degli U2, questa volta si sono rivolti agli altri mostri sacri nati negli anni ’80: i Depeche mode. Senza dubbio, però, sanno far propri, come pochi altri sulla scena pop-rock internazionale, gli insegnamenti dei maestri che decidono di seguire. Gli Editors sono emozionanti e lo sono in maniera diretta. Dopo aver visto il loro concerto di Bologna – semplice e meravigliosamente toccante – quest’album ha guadagnato per me un bel po’ di punti.

5. Il teatro degli orrori – Il teatro degli orrori: a mio avviso Capovilla e soci sono il miglior gruppo rock in circolazione in Italia: freschi, mai scontati e molto colti nelle citazioni e nei riferimenti. Questo però, purtroppo, non è il miglior album dei TDO, ecco perché lo inserisco solo al quinto posto. Ha due piccoli difetti, a mio modesto parere: è un po’ troppo “monocorde”, tutto molto tirato e povero di cambi di dinamica, e non ha il giusto equilibrio fra parti recitate e parti cantate, propendendo troppo verso le prime. Non fosse stato per questi due particolari, sarebbe il loro solito piccolo capolavoro.

FLOP:

Veniamo, quindi alle note dolenti:

1. Negramaro – La rivoluzione sta arrivando: qualcuno, forse, si stupirà di veder presi in considerazione in una classifica di questo genere – seppure dalla parte dei “cattivi” – i sei salentini. La verità è che io, non mi vergogno di ammetterlo, ho sempre pensato che nel 2005 “Mentre tutto scorre” sia stata una gran bella scoperta e che, solo 5 anni fa, “Casa 69” sia stato un autentico capolavoro. Dispiace, quindi, constatare che nel 2015 i Negramaro si siano trasformati nella brutta copia della loro brutta copia: i Modà. Che sia colpa del troppo successo? Forse.

2: Coldplay – A head full of dreams: Non ci siamo. Non ci siamo proprio. Dove sono finiti i Coldplay degli esordi? Anche in questo caso temo che il successo abbia dato alla testa, se quest’ultimo album non è altro che una riedizione dei loro stessi pezzi che hanno più di tutti sbancato le hit parade, rimescolati e, se possibile, resi ancor più orecchiabili da coretti melensi, ritmi ballabili e arrangiamenti pop. Li ho persi da troppo tempo, ormai.

3: Ministri – Cultura generale: non me ne vogliano Divi, Federico Dragogna e soci: di certo quest’album non è poi tanto male, ma da loro mi aspetto di più. Ci sono degli ottimi episodi: “Idioti”, “Balla quello che c’è”, “Cultura generale”; ci sono anche un po’ di classici dei Ministri, quali “Macchine sportive” o “Cronometrare la polvere”, ma nel complesso l’album non è all’altezza delle aspettative. Troppi pezzi un po’ scontati, troppe aperture eccessivamente melodiche. Se i Ministri perdono di cattiveria non sono più i Ministri, diventano una qualsiasi band di pop rock con dei testi giusto un po’ più ricercati. Ecco perché dico che si può dare di più. Questa è la classica insufficienza che vale da sprone a far di meglio.

Testo e giudizi di Manlio Ranieri, che se ne assume tutte le responsabilità!  🙂

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