Crash

Manhattan oscillava sullo sfondo, migliaia di finestre come lucciole annacquate dalla foschia e dai postumi della dose di crack.
Earl si trascinava fra i vialetti del Rucker Park, dove gli alberi piangevano le ultime lacrime di un acquazzone primaverile. La pioggia aveva regalato un petricore che lo inebriava e un mucchio di pozzanghere intorbidite dove si specchiava di sbieco senza riconoscere quel volto di giovane vecchio, il guizzo negli occhi oppresso da quella vita di strada a cui non si era abituato.
Infilò la mano in tasca e i suoi polpastrelli tastarono la bustina col crack e la pipetta. Tremò all’idea della dose serale.
Fu proprio in quel momento che captò una melodia piacevole, familiare, metallica. Avrebbe riconosciuto il crash della retina d’acciaio del canestro fra un milione di altri suoni.
Accelerò il passo, richiamato da un istinto primordiale, voltò l’angolo e il campetto da basket era lì, epifanico: il centro del Rucker e del suo mondo fino a qualche mese prima. Palcoscenico di partite che erano già leggenda e di scommesse – sempre vinte – in cui doveva soltanto accendere quei due prodigiosi polpacci che Madre Natura gli aveva donato e decollare più in alto di tutti.
Incuranti dell’acqua che ostacolava i palleggi, quei ragazzini felici in campo erano l’altra faccia della sua medaglia chiamata vita. Earl mollò la bustina di crack e la pipetta in tasca: non li avrebbe usati.
Il suo passo era già meno incerto quando varcò la linea di fondo, interrompendo la partita.
“Ehi ragazzi, posso fare due tiri con voi?”
Per quella sera le Converse bucate sarebbero state più che sufficienti.
 

SBAM!

Mezza Harlem era ammucchiata in piedi sul perimetro del campo: succedeva ogni volta che Earl e Lewis giocavano contro. Una marea scura che ferveva e sbraitava a ogni azione, a ogni errore, a ogni canestro.
Al piccolo Will le leggi del basket di strada non erano ancora chiare, ma una genuina curiosità l’aveva spinto a lasciare la mano della mamma e sgusciare impavido fra quella selva di gambe impazzite. Non aveva paura di essere travolto, era incantato dalla sconvolgente intensità delle dieci pantere che anelavano il trentunesimo punto, quello che avrebbe chiuso la partita.
Proprio allora Earl allungò il braccio, sfiorò quel tanto che bastava il pallone e lo recuperò, involandosi in campo aperto, con Lewis che correva a difendere il suo canestro.
Tutto il Rucker ammutolì in una specie di incantesimo. Solo il rimbalzo del pallone e lo scalpiccio della gomma sul cemento intaccavano il silenzio.
Centinaia di paia di occhi, compresi quelli di Will, erano puntati verso i due più incredibili talenti che Harlem avesse mai conosciuto.
Il tempo sembrò rallentare, anche se accadde tutto in tre secondi. Earl puntò i polpacci, staccò da terra, decollò oltre le braccia protese di Lewis e affondò una fragorosa schiacciata che fece quasi esplodere il canestro.
SBAM!
 
Le urla di gioia di Earl, seguite da quelle del Rucker, ruppero il sortilegio. Solo Will era ancora a bocca aperta. Mosse qualche passo all’interno del campo, si avvicinò a Earl e lo squadrò dal basso verso l’alto.
“Ma… ma tu sai volare?”
Un sorriso dolce attenuò la tensione e la fatica sul volto sudato di Earl.
“Più o meno, piccolo. Vuoi imparare anche tu?”
 
 

CIUFF!

Avversari alla portata, campo asciutto, pochi spettatori: erano partite che Earl vinceva quasi da solo, di solito, senza spillare una goccia di sudore.
In quella tiepida sera di metà giugno, però, sembrava fuori fase. Le gambe non mulinavano, le braccia erano molli, i polpastrelli non davano del tu al pallone.
Fu durante un time-out che la intravide a bordo campo.
Una scarica elettrica lo attraversò. Nelle sinapsi le percezioni della notte prima, tutte insieme. Avvertì ancora l’esotica fragranza dei capelli di Amy, le dolci asperità della sua pelle corvina, le sue curve voluttuose, il sapore sfacciato delle sue labbra, l’inebriante tepore del suo sesso.
E ripensò subito alle parole con cui l’aveva salutato proprio quella mattina, fra un bacio e l’altro, a quella frase bisbigliata con malizia a pochi millimetri dalle sue labbra.
“Stasera vengo a vederti giocare, babe. Dedicami cinque canestri da tre e sarò di nuovo tua. Niente di più facile per il miglior giocatore del Rucker, vero?”
 
In realtà il tiro da fuori non era la specialità della casa, ma la brama di un’altra notte con Amy valeva più di un corso accelerato con Larry Bird.
Earl attese in angolo, ricevette palla, tirò con rinnovata sicurezza.
CIUFF!
La retina si mosse appena: primo tiro segnato, primo indice puntato verso Amy. Le azioni successive furono fotocopie. Earl non sbagliava più: ne segnò otto consecutivi, proprio per essere sicuro.
A fine partita si avvicinò sorridente alla ragazza, che lo aspettava sorniona.
“Grande partita, babe! Sai, ti avrei rivisto anche se non avessi segnato da tre. Ma girava voce che nel tiro da fuori fossi scarsino…”

WOW!

Cento tiri da fuori, altrettanti da vicino. Poi un centinaio di tiri liberi e per concludere volava a canestro con cinquanta – sì, cinquanta – schiacciate. Le ultime della serie erano quasi degli appoggi: anche se prodigiosi, polpacci e quadricipiti urlavano di dolore, traboccanti di acido lattico.
La routine di Earl prima di lasciare il Rucker era un’appendice di fatica che non conosceva stagioni. Sarebbe durata la notte intera, se solo non avesse dovuto svegliarsi all’alba per distribuire giornali prima di andare in officina a nettare carburatori sudici.
Poi iniziava la sua vera giornata: di corsa sul sodale cemento, a macinare partite.
Tutte vinte.
Harlem ormai venerava quel diciottenne tanto schivo quanto forte. Fortissimo, devastante.
 
Con la pallacanestro Earl riscattava le sue giornate sbiadite, anche se “con la pallacanestro non ci compri il pane, ragazzo”.
Più glielo ripetevano, più la sua determinazione era feroce. E così dopo aver stravinto restava solo, continuava a esercitarsi per segnare un tiro o affondare una schiacciata in più rispetto al giorno prima.
Voleva essere il migliore di Harlem.
Anzi, lo era già.
Ora toccava agli altri quartieri, a New York, agli Stati Uniti.
 
L’occasione arrivò qualche sera dopo, sotto forma di un inconsueto bianco in smoking con i capelli a spazzola.
“Ragazzo, fra due giorni i Knicks ti aspettano al Madison per un tryout. Nove e trenta. Sii puntuale!”, gli intimò porgendogli una lettera timbrata.
“I Knicks? I New York Knicks dell’Nba?”
“Conosci altri Knicks, per caso?”
“WOW!”, fu l’unica risposta che riuscì a dargli mentre afferrava la lettera.
 
Foto: Russell Westbrook – Sue Ogrocki (Associated Press)

PFF

Il Madison Square Garden non era un palazzetto. Era la cattedrale laica dove venerare la Palla a Spicchi, quel simulacro che Earl maneggiava ogni santo giorno.
Aveva contemplato il Garden dall’esterno un paio di volte, in qualche rara sortita a Midtown.
Mai avrebbe immaginato di varcare quella soglia, tanto meno da invitato dei Knicks e non come semplice spettatore di una partita dell’Nba, sogno di una vita fino a pochi giorni prima.
Adesso sgusciava su quel mitologico parquet insieme a un’altra decina di diciottenni bramosi di una canotta con la scritta New York ricamata sul petto.
 
Forza, velocità, elevazione da fermo e in corsa. Earl surclassò tutti nei test fisici individuali: le cinquanta schiacciate con cui arrossava i suoi polsi ogni sera dovevano pur servire a qualcosa. Il ragazzo di Harlem si era trasformato in puma delle Ande.
La partitella finale fu il giusto tripudio. Il ragazzo era a suo agio come se fosse stato al Rucker, e sfoggiò un campionario di schiacciate così fragorose che i canestri del Madison tremano al solo ricordo.
 
“Rallenta, fratello”, ghignò un difensore che non riusciva a stargli dietro, “al massimo sarai buono per il Rucker, ma in Nba non ci vai, non sei alto!”
“Dici? Pff”, sbuffò Earl “centosettantasette centimetri mi basteranno a fare il culo a tutti. Dai, c’è riuscito quel nanerottolo di Muggsy Bogues che è più basso di tua nonna!”
L’altro non rispose, aveva il fiato corto.
Si limitò a osservare il prodigio di Harlem che planava ancora una volta verso il ferro.
 

AARRR

Quella sera il Rucker era quasi deserto. Dieci forsennati in campo e un barbone a guardarli di sottecchi da una panchina sul fondo.
 
Si giocava per il canestro decisivo dell’ennesima partita.
Steph prese palla sulla linea da tre e fintò un tiro. Gli si aprì uno spiraglio verso il canestro e il ragazzo ne approfittò, incuneandosi con due palleggi decisi. Pallone afferrato come un’arancia, terzo tempo lungo e vigorosa schiacciata che fece traballare il tabellone.
“AARRR” ruggì con veemenza, atterrando. “Come Earl, come The Goat! Sono il re del Rucker!” gridò saltellando. Nessuno fece caso alle lacrime che in quel momento rigarono le guance del barbone, di quell’uomo che era stato appena evocato.
 
Urla e lacrime.
Quelle di gioia per ogni schiacciata decisiva – quante migliaia? –, quelle di dolore mentre lottava col crack. Quelle di rabbia quando i Knicks lo esclusero per quel problema al ginocchio, due giorni prima dell’inizio del campionato. Quelle di frustrazione per non essere mai stato richiamato.
Quelle disperate quando non trovava più neanche un tetto. Il re del Rucker dormiva nelle stazioni della metropolitana.
 
Earl incrociò per un istante lo sguardo del ragazzo: gli bastò per cogliere il guizzo che stava cercando.
Si alzò lentamente e si incamminò, dando le spalle al Rucker per l’ultima volta nella sua vita.
 
Puoi farcela, ragazzo.
Continua a schiacciare. Continua anche quando ti sanguineranno i polsi.

testo di Daniele Bitetti 

per il nostro ultimo corso online di scrittura “Entusismo Vivace” condotto da Antonella Petrera

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Photo by chelsea ferenando on Unsplash

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