La letteratura abita i luoghi in molti modi.

A Parigi, per esempio, l’ho vista distesa sulle pareti dell’Orangerie, mentre osservavo ‘la rotondità del nulla’ delle Nymphéas bellissime e ossessive descritte in ‘City‘ da Baricco; al Père Lachaise, in pomeriggi di rapide piogge, ho intrattenuto brevi conversazioni con le tombe dei miei amati Balzac, Proust ed Éluard.

La geografia si imprime sulle pagine, persino; ricordo perfettamente i luoghi in cui ho letto alcuni libri, il modo in cui quegli scenari inediti hanno riempito i miei occhi, divenuti tutt’uno con la storia.
Gli elementi attorno si fanno narrazione, come quando senti un profumo di caffè, ma stai dormendo, così sogni una lunga colazione. 

C’è un mormorio di neve, ne ‘La luna e i falò‘ letto al Central Park, dentro un universo di inverno newyorkese così diverso da quel paesaggio piemontese; osservavo gli scoiattoli per la prima volta, erano come uno sguardo a margine di quelle pagine.

Q‘ , letto quando ero ancora una volta nella Ville Lumière, è pieno dell’irrequietezza di quei giorni, conserva nel mio palato il ricordo piccante dei piatti indiani del ristorante in cui cenavo – c’era Ganesh sul menu, con le sue braccia di inchiostro protese verso porzioni di riso e verdure – quel tavolo era un riparo dal vento.
Leggevo di guerre di religioni, fra un piatto e l’altro, e pensavo che in termini immaginifici un dio con quattro braccia e la proboscide fosse molto più attraente di un’entità astratta: d’altra parte a credere a braccia protese ci vuole veramente poco.

Ho letto ‘Il nome della rosa‘  in un paesino in provincia di Avellino, dove capitai per caso a 17 anni, in una pensioncina di fortuna con i letti scomodi e le piante sui davanzali che spargevano odore di origano sulla strada. 
Umberto Eco – in vita e morte – è tutto fatto di un lungo campanile, stradine in salita e case di pietra.

Sonata a Kreutzer‘ è dolore ai polpacci su Paseo del Prado, a Madrid; le ultime pagine lette su una panchina arroventata dal sole, sole dappertutto, anche nei miei occhi, trafitti da centinaia di quadri di museo.
Tolstoj mi lacerava la pancia svelandomi la natura meschina e inevitabile della gelosia, io sentivo nei crampi alle gambe e nella fame che irrompeva l’imperativo del corpo che sottomette sempre l’intelletto ai bisogni del ventre.
Spazzolai un panino, poi il libro, dietro il suo epilogo scrissi una poesia.

L’incolore Tazaki Tsukuru‘ ha – nel mio ricordo – gli stessi tragitti che tracciavo sulla mappa della metropolitana di Londra; scoprii il motivo della damnatio memoriae del protagonista mentre affioravo a White City, avevo il cuore in tumulto per il libro e per la mia vita, anche io senza colpe evidenti sparivo in un bianco oblio.

Credo che ognuno di noi possa elencare una moltitudine di libri che in realtà sono segmenti della memoria, che portano impressi luoghi, facce, suoni, odori, sapori, sensazioni, come coordinate letterarie che ci dicono dove eravamo quando stavamo soffrendo, sognando, ci stavamo innamorando.

Affacciato a un balcone di Roma leggevo ‘Dune‘ quando il telefono ha squillato; ma ero sulla stessa pagina da troppi minuti mentre aspettavo quel suono, le vite che ricominciano non fanno altro che distrarti.

[Fotografia di Joel Muniz]

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