Quando accarezzava il suo ricordo gli sembrava di guardarsi in un frammento di specchio del 1933. Quieto e pensoso, tra il Terzo Reich e l’invenzione dei neutrini, sfogliava Sun Tzu e la settimana enigmistica. Si chiedeva se altri occhi l’avrebbero mai guardato in quel modo. Se fosse davvero migliore adesso, con i suoi scialbi lunedì e il giubbotto antiproiettili. Questo continuo ridimensionarsi e peccare di nascosto, scongiurando l’ennesima mina antiuomo, l’ennesimo film scadente, l’ennesimo ritorno dell’uguale. I pensieri erano pesci autistici sui calendari, assenti e lontani come i tappi delle bic, come le grandi speranze al microscopio, come le cicatrici intradermiche che passano inosservate per le strade. Lei gli avrebbe detto che sarebbe andato tutto bene e poi avrebbe finto di morire. Lui sarebbe stato assorbito dalla tragedia ipotetica, dimenticando i fiori sul balcone.

Cos’è la serenità?

Se lo chiedeva spesso.

Quanto costa?

Quanto costa quest’armatura? Tutta la pace dipinta sugli zigomi?

Versava il suo tributo d’inchiostro al nodo in gola, a tutto ciò che era perduto e non si poteva dire. La calma si lasciava calpestare dai i cavalli cannibali della rabbia. E la risacca gli sputava dentro ogni rimpianto, ogni momento bianco, ogni tacita offesa. Le carogne sulla spiaggia attributi del sé di cui si era lentamente spogliato. S’immaginava nudo e solo sulla riva. Cosparso di sangue e liquido amniotico, ancora, come per miracolo. Lei si trascinava dietro tutte le atrocità della giovinezza, tutti i panzer del 1933.

Era così stanco. Così stanco. Si stringeva nelle spalle come abbracciandosi, come ricordando l’ultima volta in cui non aveva sentito freddo. Come credendo davvero di non bastarsi. Certe parole di Platone gli spezzavano il cuore: lo facevano sentire drammaticamente incompleto.

Qualcosa in lui gli faceva desiderare di essere guardato ancora in quel modo. Non come guardano le passanti. Distratte da mille cure. Aveva già amato il regime torrentizio di certe belle acque: non avrebbero mai potuto placare la sua mostruosa sete. Pure sforzandosi, certi fiumi, di somigliare all’oceano. Quanto aveva pianto per loro. Le mani nelle mani. Le catacombe ingombre di mi dispiace.

E quelle rare volte in cui aveva allungato le mani, morendo poco a poco tra “piccoli sorsi interrotti”, aridi deserti, pozzanghere d’asfalto, miraggi d’oasi e Naiadi bulimiche.

Vai a nuotare altrove, gli scriveva dentro qualche saggio letto chissà dove. Non è per te questo mare.

Aveva scritto chilometri di poesie sulla carta igienica. Lo sapeva e riusciva a riderne, in qualche modo.

Si sentiva così vecchio da qualche tempo, col vezzo d’accademia cucito a materasso sugli istinti.  Non guardava più i culi, la danza dei capelli sugli omeri, le labbra schiuse sugli orli dei bicchieri, l’eleganza dei polsi sui banconi del bar: tutte le sue poesie, tutte le sue donne discendevano da lei e dall’arte della guerra.

Eppure non l’aveva scelta. E aveva smesso di dire alle donne quanto fossero belle. E terribili. La verità era bestiale: gliel’avevano fatto venire duro e lui si ostinava a vestire la natura di artifici artistici e meraviglia. Inutile fatica degli anni che l’avrebbe inaridito, scarnificato.

Ora aveva smarrito persino il guizzo del cazzo nei pantaloni. Era sempre stato troppo alto o troppo basso per lei, per tutte le donne che non sapeva comprare.

La nostalgia di uno sguardo lontano, quel riverbero delle storie che l’avevano incantato da ragazzo, l’amore immenso dei libri: tutto questo è una bugia. E le bugie fanno poca luce.

Non avrebbe mai voluto pensare a lei, a certi bellissimi inganni.

Non avrebbe mai voluto pensare all’essere guardato in quel modo.

Era passato troppo tempo.

Forse era stata solo una delle sue invenzioni.

La più bella. La più disastrosa.

Delia Cardinale

 

© immagine di copertina Herbert List

 

 

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