“Attraverso la finestra” simula uno sguardo curioso che guarda dentro la finestra di un dirimpettaio
di casa. Una situazione in realtà che la maggior parte dei cittadini conosce bene e che un film come La finestra sul
cortile di Hitchcock ha fatto entrare ormai nell’immaginario collettivo, ma che non ha certo esaurito la sua efficacia.
La finestra è infatti la metafora principe dell’immagine dal Rinascimento in qua – noi guardiamo un’immagine come
attraverso un finestra – per cui quello che vediamo è al di là del vetro, cioè di una superficie trasparente e invisibile
che costituisce il piano di proiezione dell’immagine. Ciò che vediamo di là ci è inaccessibile, se non attraverso le
fantasie o le analisi che vi costruiamo sopra. Così in particolare nello “spiare” dalla finestra: che cosa sta accadendo in
quell’altra casa? Che significato ha? Barrera dunque mette in scena la posizione dello spettatore.
Ma l’inquadratura di Barrera ha due particolarità. La prima è che evidenzia anche la simmetria della situazione,
anzi la specularità – “attraverso la finestra” significa sia attraverso la nostra da cui guardiamo sia attraverso quella che
spiamo –, per cui in fondo noi, immaginando, proiettiamo le nostre aspettative e i nostri pensieri su ciò che vediamo.
Monito per l’interprete, certo, ma anche enigma di ogni immagine.
La seconda è l’evidenziazione dello spazio che separa le due finestre, cioè lo sguardo dalla scena, spazio che
prende tutta la sua forma, vuoto che si manifesta come il vero soggetto dell’immagine. Noi in effetti vediamo qui
soprattutto questo spazio. È lo spazio della scena, la distanza, la dilatazione spaziale – ma anche temporale, a ben
pensarci – del vetro “attraverso” cui guardiamo.

  Elio Grazioli

 

Testo di Daniele De Luigi per il catalogo ATTRAVERSO LA FINESTRA. Zone Attive Edizioni 2009.

 

C’è qualcosa, nelle fotografie di Giorgio Barrera, che cattura irresistibilmente la nostra attenzione. L’estetica è accurata; la struttura dell’inquadratura è chiara, rispettando i modelli rappresentativi dell’architettura e del paesaggio che ben conosciamo; la scena si presenta nitida, ricca di dettagli su cui è piacevole soffermarsi. Questi aspetti tuttavia ci fuorviano sulla facilità di lettura dell’immagine, mentre, senza che ne accorgiamo, ciò che osserviamo genera una serie di dubbi e mette in moto un processo interpretativo in cui le cose si rivelano non così scontate come era sembrato.

La ricerca di Barrera Attraverso la finestra poggia su questo e altri delicati, ben misurati punti di equilibrio, che ne costituiscono, al di là dell’immagine, il senso più profondo. Essa è il frutto di un percorso concettuale lineare e coerente e prende le mosse da precedenti cicli di lavori (Psychologies e Instructions for use) aventi anch’essi come oggetto situazioni di interni domestici, rivelatori dell’interesse che l’artista ha sempre provato, e coltiva tuttora, per gli aspetti psicologici e sociologici della vita quotidiana e dei “rituali” che la contraddistinguono. Le persone, ritratte nell’esecuzione di questi gesti abitudinari che inducono a una standardizzazione dei comportamenti, sono individui che egli vede come «soggetti agenti e agíti al tempo stesso, ovvero dotati di personalità e storia proprie ma anche, in qualche misura, indotte».1 L’ambiente familiare in cui esse si muovono si trasforma in uno spazio teatrale in cui la vita viene “messa in scena”.

Quelle immagini appartevano dunque a un genere che vanta una lunga tradizione fin nella pittura aristocratica e borghese, radicata nel realismo, ma che fotograficamente deve fare i conti con la simulazione di un’impossibile ingenuità, ovvero dell’assenza del fotografo. Fin da subito l’artista si è quindi confrontato consapevolmente con il problema del rapporto tra realismo e finzione nella rappresentazione fotografica. Muovendo da queste premesse, la novità di Through the window è stata l’introduzione di uno stratagemma apparentemente semplice, ma che provoca un intreccio di diversi meccanismi psicologici rendendo più complesso il senso dell’immagine: la presenza di una finestra attraverso la quale ci è consentito guardare all’interno di un’abitazione dall’esterno.

Questo elemento gioca un ruolo determinante nel modo in cui l’immagine viene percepita da colui che sta dall’altra parte e che ne è il vero destinatario: lo spettatore. Il suo punto di vista, divenuto analogo a quello di chi si trovasse alla finestra di fronte o sul lato opposto della strada – circostanza del tutto plausibile – ne acquista una maggiore attendibilità. Per Barrera è infatti importante lasciare allo spettatore la sensazione di stare guardando con i propri occhi, senza mediazioni, e questa impressione di godere di una posizione privilegiata, protetta, provoca un’immedesimazione nella situazione. È evidente che il fotografo, mettendo chi guarda in questa condizione, sta conducendo un gioco ben preciso: egli sa che, a questo punto, lo spettatore vuole sapere qualcosa, vuole capire cosa gli viene fatto vedere e perché. Vorrebbe, soprattutto, avere una chiave interpretativa, con cui invece Barrera giocherella tendendola in tasca. Ad esempio, quanto c’è di vero e quanto di falso in ciò che vediamo? Se vero è che il fotografo crea una sorta di set, che gli scatti sono preparati ed eseguiti d’accordo con le persone ritratte, è vero anche che queste ultime non sono semplici attori in un ruolo che non gli appartiene, bensì performers che interpretano se stessi. Quella che va in scena non è dunque una recita ad esclusivo uso dell’artista, ma anche una consapevole autorappresentazione dei protagonisti che implica, da parte loro, un alto grado di partecipazione nel rappresentare la propria identità tra le mura domestiche. Le case stesse sono appunto quelle in cui vivono quotidianamente o che sono comunque abituati a frequentare – di parenti o di amici – ed è innegabile quanto questi elementi vadano a costituire un’aspetto a tutti gli effetti documentario delle fotografie che convive con quello d’invenzione, confondendosi. Decisivo per il mantenimento di questa ambiguità è l’atteggiamento del fotografo, che spesso non visita in anticipo la location e durante la ripresa lascia quasi sempre spazio all’improvvisazione, inducendo spesso le persone ad assecondare le loro abitudini e a svolgere le attività a cui sono soliti dedicarsi. A queste condizioni, violando sistematicamente le regole sia della fotografia staged che di quella diretta, il confine tra documento e finzione diventa sottilissimo, ma l’istintiva necessità dello spettatore di dirimere la questione in un senso o nell’altro si rivela come un falso problema che non spiega il senso dell’immagine, ma piuttosto lo nutre. Barrera infatti genera aspettative che consapevolmente disillude, e crea dubbi senza preoccuparsi di scioglierli, semplicemente perché a quel punto il suo obiettivo sarà già stato raggiunto. Utilizza codici che fanno riferimento a differenti tipologie di immagine e che abbiamo assimilato ed imparato a intendere, ma il loro utilizzo alternato all’interno di uno schema ripetuto destabilizza le nostre capacità interpretative, ed è il gioco di prestigio con cui Barrera ci tiene nascoste quelle famose chiavi.

Mentre alcune immagini si leggono come un frame cinematografico per la tensione narrativa che si percepisce in esse, portandoci a fantasticare del rapporto psicologico tra i personaggi,2 altre riecheggiano l’idea tradizionale di fotografia, nel sembrare colte di nascosto dal fluire della vita autentica, o emulando il “momento decisivo”. In ogni caso, il fatto che in esse accada qualcosa e che noi siamo stati messi a guardarlo come se ci fosse stata data l’opportunità di spiarlo furtivamente, implica il convincimento che nell’immagine debba sempre esserci necessariamente qualcosa da vedere, o un segreto da scoprire – magari una presenza nascosta che sorprendentemente fa capolino da una finestra buia o che misteriosamente entra in scena dai bordi dell’inquadratura. Ma se pensiamo così di aver scoperto il trucco, ecco altre immagini in cui non accade assolutamente nulla. La nostra mente, però, ora è portata a leggerle in modo diverso: esse diventano irresistibilmente enigmatiche e qualunque finestra cela potenzialmente una storia. Perfino le scene più ordinarie, in cui tutto appare evidente, possono farsi improvvisamente sospette.

Questo continuo rimettere in discussione il perché dell’immagine, rifolmularne i codici interpretativi, appagare e disilludere lo spettatore disorientandolo, è il principio concettuale che muove il lavoro Barrera. “Il mio è un tentativo di bloccare determinati meccanismi di comunicazione, di portare la persona a chiedersi cosa succeda veramente, ponendosi come parte attiva attraverso l’azione del guardare”. La sua vuole essere una sfida all’atteggiamento passivo di cui sempre più spesso è preda chi fruisce le immagini, guidato attentamente affinché, secondo schemi precostituiti, veda solo ciò che già si aspetta di vedere e che non ha nemmeno bisogno di capire. Giorgio Barrera fa invece emergere tutta l’ambiguità e la contradditorietà insita nell’immagine fotografica: per scoprirla, basta guardare.

 

Daniele De Luigi

 

1 Da una presentazione del lavoro dell’artista scritta da Nicoletta Leonardi.

2Per i rapporti tra Barrera, il cinema e la fotografia cinematografica, e altri spunti di approfondimento, si veda anche D. De Luigi, “Giorgio Barrera. Attraverso la finestra”, in Fotografia Europea : la città / l’Europa, Bologna, Damiani, 2007, p. 288-91.

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