Chissà quali orecchie compreranno le nostre storie, d’ora in poi.

Gatti randagi senza stivali: cavigliere di filo, vite in scatola e tasche gonfie di treni. Uccelli migratori terrestri sotto l’egida di un ministero lontano.

Seminiamo fibre cardiache per la penisola, sfilacci di noi votati al ritorno.

Tra l’istituzione e gli angoli bui un rosario infinito di pensieri e un cuore groviera che stagiona caparbio senza ammalarsi. La resilienza dei precari coi libri sottobraccio, la casa valigia e un tappeto di chilometri sotto i passi.

Di ritorno da un’avventura balcanica, tra folli zingarate, vacche magre e flicorni opachi, si schiude il sipario di un nuovo viaggio verso nord. Scurita dal sole brigantino del meridione, dalle coste dell’est Europa, dal walzer di umori sulla pista dell’ignoto, aspetto una chiamata.   

Siamo migliaia.

Chissà se ritroverò i miei ragazzi o dovrò ricominciare, ancora. Una specie di frenesia triste mi solletica le vene. Lascerò, questa volta, due dimore. Tutto ciò che resta di questa stanza è uno scheletro bianco sporco. L’altra che mi aspetta è quella dell’infanzia, quella del verde. Quella di un passato che non sento più mio, al punto da preferire una terra straniera. Certe stanze sono così ingombre che l’idea del vuoto rassicura. Mi è sempre piaciuto comprare lampade ai mercatini. Raccontare storie che verranno dimenticate, ascoltare storie che non dimenticherò. Amo Bari nella bellezza e nello schifo. Amo e odio il mio paesino della Lucania per così tanti motivi che non basterebbero mille quaderni a quadretti. E comunque non posso più restare. Amo la scuola in ogni sua infinitesima componente fisica, quella dei piani bassi: aule, corridoi, sguardi e parole.  L’odore di cancelleria, piccoli volti sconosciuti, milioni di storie: le mie, quelle degli altri, quelle dei libri.

La solitudine di certe scelte ha qualcosa di magico e disperato.

Sanguino per ciò che ho costruito e non potrò curare come vorrei. Sanguino per ciò che ancora non conosco. Siamo migliaia. Nuove stanze ci aspettano dietro le stazioni a Milano nord. Sperando nel cremasco: mi manca il tabaccaio di via Piacenza, il sussurro del Serio alle finestre, l’appendiabiti con le rotelle. Mi mancherà questo odore di porto, il calore umano di chi mi è stato vicino, l’essenza di una condivisione profondissima dopo anni di tirocinio. A chi leggerò le bustine di Minerva? Quando? In quale supermercato farò la spesa? Quanto tempo occorre per creare legami che resistano alla distanza? Perderò tutto? Le domande sgomitano nella mente come gente ai saldi di stagione. Non posso che scrivere, col sangue alle dita. Piena di gioia e di terrore. L’America del primo 900 nel cuore della Magna Grecia. Certo all’epoca c’era più coraggio e più miseria.

Oggi siamo meno pronti al sacrificio, eppure le stazioni e le cattedre si riempiono di noi.

Siamo migliaia.

Delia Cardinale

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