Quando sto così mi dovete lasciar stare, tanto lo sapete anche voi che prima o poi passerà. Può durare qualche ora, qualche giorno, ma prima o poi passa, basta che la smettete di chiedermi cos’ho. Son le cinque del pomeriggio e non mi sono ancora alzata dal letto, e allora? La colazione non mi andava, il pranzo neanche, ogni tanto ho fatto due passi per andare al bagno a pisciare ed è già tanto. Mia madre mi ha chiamato al telefono almeno sette volte, ancora non ha capito che non mi va di parlare con nessuno. Nessuno. Qualche minuto fa ho sentito sbattere il portoncino d’ingresso, dev’essere lei e se non è lei spero che sia la morte. Che sia venuta a liberarmi.

Mi piacerebbe così tanto addormentarmi, addormentarmi per sempre e non svegliarmi più. Mai più. Eppure non posso. Io non posso nemmeno morire perchè lui ha bisogno di me. Capite? Lui ha bisogno di me e io non posso nemmeno permettermi di morire. Non chiedetemi dove sta, l’ho portato in un posto sicuro e resterà lì fino a quando ci sarà lei in questa stanza buia. Lui non deve vederla perché è brutta. Troppo brutta e spaventosa. Sento i passi di mia madre lungo il corridoio, sta chiamando il mio nome dalle scale ma non le ho risposto nemmeno una volta. Ancora non ha capito, questa. Non ha capito niente. Niente. Che ora devo rimanere qui immobile e che non posso fare altro, perché lei è troppo forte e se mi muovo mi stritola, capite? Se mi muovo mi stritola il cervello e non mi fa respirare più.

La maniglia della porta si piega piano piano verso il basso e da uno spicchio di luce mia madre mi chiama ancora, per l’ultima volta. Mi ha scoperta nel mio nascondiglio nero, raggomitolata sotto la trapunta rossa che mi ha comprato qualche anno fa quando ancora era tutto come doveva essere. Perfetto e finto come nella pubblicità del Mulino Bianco. Ha scoperto la mia tana in una stanza quattro per cinque, buia, con le finestre completamente chiuse e la porta serrata. Mia madre forse ha paura perché la mia tana è nera e piena di mobili che non cambiano mai di posizione. So perfettamente dove si trova il mio comodino, l’armadio e la statua in porcellana Limoges che mi hanno regalato per il primo anniversario ma non chiedetemi di toccarli o di raggiungerli perché davvero ora non saprei da che parte andare. È buio qui, troppo buio. Ed è troppo pericoloso muoversi, perché da un momento all’altro lei potrebbe afferrarmi per i capelli e sbattermi per aria, a destra, a sinistra, boom boom, sul muro e poi per terra. Boom. Fino a quando avrà sfogato la sua rabbia e io boh, non so come ne uscirò. Viva o morta che importa. Stanca. Sicuramente. E sfibrata sin dentro le ossa. Dentro. Le mie ossa.

-Ma che stai facendo? Apri, apri un pò le finestre, fai entrare la luce.

-No, chiudi tutto, ti prego, la luce mi dà fastidio agli occhi. Chiudi tutto e vattene. Sto bene.

Mia madre mi ha lasciato una confezione di carne di cavallo cruda sul comodino, pensava di darmi un buon motivo per alzarmi e cucinare ma non è ancora il momento. Lei sta ancora qui in queste quattro mura e finchè non se ne andrà comanderà lei. E io dovrò starmene immobile, il più immobile possibile. Altrimenti potrei cadere nei suoi tranelli. E morire. Magari morire. Lasciatemi, lasciatemi sola a combattere in questo buco nero, non entrate mai perché è troppo pericoloso, lasciatemi qui dentro e chiudete la porta a chiave perché non vorrei mai che vi facesse del male. Che vi prendesse come fa con me e vi portasse sull’orlo del balcone a farvi guardare com’è bello laggiù. Potrebbe girarvi la testa e io non me lo perdonerei. Mai.

Lasciatemi in questa stanza  a farla sfogare su di me, prima o poi si stancherà e mi lascerà andare. Tornerà tutto come prima, mi sistemerò i capelli, mi laverò la faccia e aprirò la porta. Tornerò tra voi come se niente fosse, sorridendo un po’ stanca. Anche se mi avrà portato via qualcosa. Un braccio, un piede, una fetta di cervello piena di ricordi belli. Quella puttana sa dove conficcare il coltello, zitta zitta prende la mira e gode nel vedermi resistere mentre le grido piangendo che non è vero, che quello che mi sussurra nelle vene non è vero. Lo so. Ma lei non molla, credetemi, è forte, troppo forte e a volte mi stringe il collo talmente stretto che i respiri mi sibilano inutili e cantano canzoni afone mentre lei mi ghigna feroce. Di vomitare tutta quella merda che custodisco nello stomaco come fosse una reliquia puzzolente. Vomitarla forse mi farebbe pure bene. Ma non ce la faccio mai e alla fine sopravvivo. Sopravvivo fino a quando lei non ritorna. Io sopravvivo. Sempre. Come nelle peggiori maledizioni. Sopravvivo.

Cristina Carlà

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