In evidenza, Robert Doisneau, Juliette Binoche, 1991

Parigi, città dell’amore, della raison, dell’esprit de finesse come dell’esprit de geometrie. La cultura francese vive di contraddizioni, da una parte la tendenza alla razionalizzazione (come per il discorso sul metodo di Cartesio) dall’altra impulso dionisiaco che porta alla distruzione e ha ben poco di controllo. Mi vengono in mente i maudits (Verlaine, Rimbaud) Baudelaire, Huysmans (il ribelle autore di quell’alchimia impossibile di Au Rebours , e che nell’ultima fase della sua vita si convertì al cattolicesimo) gli scienziati precisi come Pascal, Descartes . Due visioni antinomiche che rappresentano un tutto organico che ha per sé un grande carico di energia. Questa energia a volte viene fuori dopo un certo periodo di gestazione (come fu per Pascal) o anche per Paul Valery (celebre la crisi di Genova, momento in cui decise di abbandonare i suoi studi scientifici per dedicarsi alla poesia). Un carico di energia che cerca di venir fuori, poi esplode in un culto romantico dell’irrazionalità (il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce Pascal, Pensieri, 277) pensiero), in un inguaribile spleen, nell’analisi degli stati alterati di coscienza in cui L’io autentico è libero di esprimerti (vedi I Paradisi artificiali). Simile alla cultura francese, la cultura tedesca dello sturm und drang e della hỳbris tiene uniti in sé due atteggiamenti opposti, da una parte il romanticismo dall’altra la filosofia rigorosa di Hegel, Kant. Non in tutti i popoli vive una simile contraddizione. A volte le due tendenze si fondono, quasi per un bisogno inconscio, tipo nell’analisi rigorose e filosofiche del Baudelaire di les paradise artificials. L’individuo ha da una parte bisogno di eplodere, dall’altra sente il bisogno estremo di razionalizzare fino al parossismo ad esempio negli assi cartesiani, nella diottrica (Cartesio), Sulle sezioni Coniche, (Pascal). Uno spirito che si alimenta di opposti, che si lascia andare al turbine dell’irruenza e dell’atto sovversivo, come fu durante la rivoluzione francese. L’amore per lo sfarzo, per la delicatezza, per la pittura, ma da un’altra parte la volgarità e il trionfo del basso-materiale corporeo. Penso a Bachtin e ai suoi studi su Rabelais, francese del cinquecento, il quale autore distrugge la solennità (e quindi la ratio) della cultura medioevale, per fare spazio all’anarchia e al fate ciò che volete (Fais ce que vouldras). Leggendo Il Gargantua non andiamo certamente in cerca delle perle e dei diamanti de le mot baudelarian, tantomeno della prosa-poetica di Flaubert, invece abbiamo di fronte una prosa disconnessa, iperbolica, piena di volgarità e riferimenti al basso-materiale corporeo. La mancanza di senso come nuovo senso. Distruzione delle linee pulite di significato di ciò che il medioevo (nella filosofia, nel diritto, nella medicina, in tutta la cultura ufficiale) poneva come assoluto. Ed è quello di Rabelais, il caso di uno scrittore francese che conferma la tesi di cui pocanzi relativa alla strana natura di questo popolo. Il caso di Montaigne, che decise di ritirarsi in un castello  per la difesa dell’Io, dando vita agli Essais, che di per sé sono una via di mezzo tra saggio e prosa libera (tra ratio e passio).

Parigi, è appunto il luogo prediletto per vivere la passione amorosa, rivivendo i movimenti del cuori della Parigi dell’Educazione sentimentale di Flaubert, persi in quelle mille strade e in quelle piazze piene zeppe di monumenti. Baudelaire raccontò la Parigi riformata di Haussmann, i pensieri dominanti di a una passante (Fiori del Male, 1857), ma in anni più recenti, questa città è stata raccontata dall’opera fotografica di molti artisti. Mi viene in mente prima di tutto la Paris de Nuit (Brassai, 1933), dall’aria malinconica, notturna, sospesa; il fotografo ungherese, a partire dai primi anni trenta, concentrò la sua attenzione sui lati più oscuri e malfamati, ponendo la lente su la Parigi notturna dei netturbini, degli amanti, dei malviventi. Un mondo irrazionale, che vive liberato dalla ragione diurna. Un altro narratore degno di nota è Eugène Atget, avanguardia della fotografia d’architettura  e urbanistica, definito da Berenice Abbot il balzac della macchina fotografica. In Atget la tipica prospettiva “pendente” delle pavimentazioni (forse mutuata, per la sua esperienza di attore, dalle scenografie teatrali), egli è un vero è proprio flâneur della macchina fotografica.

Giovanni Sacchitelli

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